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Il Narconon in Italia: le conclusioni dei giudici della Corte d'Appello di Milano

Tratto da: Sentenza della Corte d'Appello di Milano del 5 novembre 1993, pagg. 116-137.

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Ricerca e trascrizione a cura di Alessia Guidi, introduzione di Martini

 
Il 5 novembre 1993 la Corte d'Appello di Milano, Sez. 3° penale, si pronunciò in riferimento a decine di dirigenti ed operatori della Chiesa di Scientology, degli Istituti di Dianetics e dei centri Narconon, che si pubblicizzano come comunità terapeutiche tese al trattamento e recupero dei tossicodipendenti (1).

Il procedimento giudiziario era iniziato alcuni anni prima, dopo una fase istruttoria durata oltre due anni motivata da numerose denunce ed esposti di familiari ed ex appartenenti alle diverse emanazioni di Scientology (2).

Nel 1993, con una decisione che ribaltava le conclusioni del giudizio di primo grado - che si pronunciava contro alcuni operatori, ma assolveva la dirigenza - la Corte d'Appello condannò praticamente tutti gli imputati per reati che andavano dalla circonvenzione di incapace, estorsione, truffa (semplice e aggravata), abuso della professione medica, fino alla associazione per delinquere.

Va precisato che la sentenza venne impugnata, e nel 1995 la Corte di Cassazione si pronunciò per l'annullamento (con o senza rinvio) di alcune condanne, tra cui quelle per estorsione e per associazione per delinquere. Questo fatto deve essere tenuto presente nel leggere l'estratto della sentenza che vi propongo.

Restano comunque di grande interesse le conclusioni a cui i giudici di merito pervennero dopo l'analisi delle prove documentarie sequestrate in diversi centri Dianetics, Scientology e Narconon, le intercettazioni telefoniche e le perizie disposte dal giudice istruttore, e le testimonianze acquisite (sia delle parti lese che degli imputati, come di chi venne chiamato come semplice testimone). Ne esce un ritratto non certo lusinghiero che, a prescindere dalle successive fasi del procedimento, deve sicuramente far riflettere.

Martini

 
 

I Centri Narconon


a) Premessa

Nel 1982, come si è visto nel trattare lo svolgimento di questo processo, venivano costituite due società, la Lega per una Civiltà Libera dalla Droga, con a capo ZA.Gi. e la s.r.l. FUTURA (detta anche SOCO), che veniva presieduta (quanto meno nel periodo che qui interessa) da CA.Fe., CA.Al., FI.Me. e ME.Ca.. Le due società avevano sede nel medesimo luogo (negli ultimi tempi in via Agordat 32) e usufruivano della medesima utenza telefonica.

Di qui sorgevano e poi proliferavano in tutta Italia centri, organizzati in comunità, denominati Narconon, dedicati alla cura e al recupero dei tossicodipendenti, che facevano riferimento alle predette due società.

La Lega, infatti, si occupava di tutti gli aspetti finanziari, tanto è vero che tutte le contribuzioni venivano date direttamente ad essa e comunque le venivano trasmesse, rimanendo suo compito determinare la quota da versare ai singoli centri, per il loro mantenimento (stipendio degli operatori, spese di vitto e alloggio per i tossicodipendenti), quota che - secondo il teste V., che aveva avuto funzioni di contabile presso la Lega - si aggirava sul 20% dei contributi ricevuti, nonché la quota da versare alla Futura (presso la quale venivano addestrati gli operatori), quota anch'essa di misura abbastanza ridotta, v. sempre dichiarazioni dell'esperto V.: è comunque certo che almeno il 50% dei contributi versati dai familiari dei tossicodipendenti veniva trattenuto dalla stessa Lega (vedremo poi come è stato giustificato questo fatto e se la spiegazione data appare attendibile).

A sua volta la Futura addestrava, come si è appena detto, gli operatori che lavoravano nei singoli centri (normalmente tossicodipendenti, che erano stati in cura per un certo periodo nei predetti centri); organizzava i cosiddetti cicli di etica (a cui dovevano sottoporsi i numerosi operatori, che frequentemente ricadevano nell'uso della droga, circostanza che risulta inequivocabilmente dagli innumerevoli overt-withold - sorta di confessioni - da loro compilati durante quei cicli e che sono stati rinvenuti e acquisiti agli atti); forniva il materiale (scritti di HUBBARD) che i tossicodipendenti dovevano utilizzare nella fase finale del loro recupero.

Sia lo ZA., per quanto riguardava più strettamente il campo finanziario (pagamento delle rette, rimborsi ecc.) sia i quattro rappresentanti della Futura, prima indicati, erano coloro che davano le direttive ai responsabili dei singoli centri, che - a loro volta - dovevano impartirle ai vari operatori: lo hanno, infatti, esplicitamente dichiarato il V., per quanto riguarda lo ZA. (e la sua posizione nella Lega doveva renderlo ben edotto della situazione), nonché l'imputato LU. e i testi DeS. e R. (rispettivamente responsabile ed operatori nei diversi centri, perciò anch'essi perfettamente al corrente della situazione) con riferimento ai rappresentanti della Futura.

Come si è visto nella parte iniziale concernente lo svolgimento del processo, il trattamento dei tossicodipendenti avveniva secondo il metodo indicato da HUBBARD e si sviluppava in tre fasi: la prima per superare la crisi di astinenza, in cui il giovane veniva assistito da compagni, più avanti nella cura, e doveva assumere un grande quantitativo di vitamine; la seconda più propriamente di disintossicazione, in cui il tossico veniva sottoposto a continue saune, la terza, infine, di studio, in cui venivano trattate e apprese le teorie dianetiche.

Non si vuole qui mettere in discussione la bontà di questo metodo, che - in campo così complesso quale il recupero dei tossicodipendenti - poteva avere una sua piena validità. Si vuole, invece, mettere in rilievo il modo in cui tale metodo era attuato, tanto più che se questo era innovativo, non muovendosi nei solchi tradizionali, richiedeva evidentemente una più accurata organizzazione e una maggiore preparazione degli operatori.


b) L'Organigramma di Narconon

Se, invece, si esaminano le deposizioni dei vari testi la situazione appare ben diversa.

Innanzi tutto, occorre ricordare che questi centri nascono a partire dal 1982, in un'epoca cioè in cui le comunità per tossicodipendenti erano ancora in un numero irrisorio (proprio per le difficoltà di organizzarle in modo serio, mancando ancora quasi del tutto un valido supporto da parte delle istituzioni), quindi non in grado ancora di soddisfare le esigenze di tanti giovani drogati, anche per l'impossibilità di accoglierne in numero elevato, atteso appunto il notorio dispendio di mezzi e di persone per fornire un adeguato servizio in questo campo.

Ebbene in una situazione generale come quella appena descritta, in cui si muovevano i primi passi per affrontare una problema così grave e di così difficile soluzione, quale il recupero dalla droga, questi centri nascono invece letteralmente come funghi in tutta Italia, situandosi in qualsiasi tipo di locale, che fosse libero (vuoi alberghetti - come ad esempio per il centro "La Fenice", come ha dichiarato il teste R. all'udienza del 21.11.89 in contraddittorio con l'imputato CA. -, vuoi in villette, come si rileva ad esempio dalla deposizione di DalP., vuoi ancora in cascinali del tutto inadatti, come risulta per il centro di Grosseto) a prescindere del tutto dalle possibili necessità dell'utente e dal tipo di cura da impartire: sembrerebbe perciò doversi desumere che per l'organizzazione fosse più urgente aprire una sede comunque fosse, piuttosto che preoccuparsi del modo in cui venivano poi ospitati giovani con tanti problemi (lo ha, infatti, sostanzialmente dichiarato l'imputata PR. al G.I. l'1.7.1988, quando ha precisato che ad Albissola le strutture del centro erano così precarie, che ella addirittura non se l'era sentita di continuare a lavorare lì e aveva preferito aprire un nuovo centro a Pallare).

E che la sistemazione dei giovani in quei centri fosse la peggiore possibile, tanto da rendere le loro condizioni di vita così degradanti da provocare spesso la loro immediata fuga (il cibo era scarso e di cattiva qualità, il riscaldamento precario, lo spazio per dormire ridotto, dovendosi affollare in diverse persone in piccole stanzette con giacigli per terra, i servizi igienici del tutto insufficienti, il più delle volte uno solo per una trentina di ospiti, la pulizia era poi del tutto inesistente, senza parlare della quasi totale mancanza di stoviglie, tanto che i giovani si dovevano dividere lo stesso piatto o le medesime posate, con problemi igienici non di poco conto nel caso di tossicodipendenti); lo hanno concordemente dichiarato moltissimi testi, quali ad esempio S.D.,DalP.R., D.E., Des.A., G.G., M.G., P.M., P.D., P.R., S.R., S.I., S.G., T.D., V.M., V.E., Z.M..

Queste affermazioni trovano poi puntuale riscontro negli accertamenti compiuti dai locali Uffici di Igiene e dai N.A.S. in occasione di periodici controlli e specialmente il 4.12.1986, quando hanno proceduto alla perquisizione e successiva chiusura dei centri: basta leggere i rapporti all'epoca redatti per rendersi conto delle condizioni veramente disastrate in cui versavano tali centri.

E che questa fosse una situazione non solo nota ma inoltre ben tollerata anche dagli organizzatori è ulteriormente dimostrato da una relazione compiuta, proprio dietro loro incarico, dall'avv. Leali, che «o personalmente o tramite i colleghi e collaboratori di studio» aveva visitato, il 5.3.1986 (in un periodo cioè ben successivo alla loro apertura in cui i problemi logistici e organizzativi avrebbero potuto essere nel frattempo risolti), alcuni Narconon all'epoca operanti «per esaminare se dal punto igienico sanitario ed urbanistico abbisognavano di interventi per metterli in regola con le attuali disposizioni di legge» (v. documentazione sequestrata presso lo studio dell'avv. Leali)

Ebbene in questa relazione si può leggere - quanto al Narconon di Castelmadama - che «il sovraffollamento è evidente: dormono in 80 mq. circa 29 persone. Hanno solo tre servizi igienici incompleti e tenuti male, nonché insufficienti al numero dei presenti. Cucina e refettorio sono piccoli e igienicamente tenuti malissimo. Il disordine e il senso dello sporco si avvertono immediatamente. La sauna è posta in un vano rustico senza porte e senza pavimentazione, quindi non riscaldato e antigienico».

Le condizioni non sono però migliori nel Narconon di Grosseto: «la situazione igienica è assai carente: in particolare la cucina è indecente e piccolissima ed il refettorio piccolo e tenuto male. I servizi igienici esistenti (4 sono pochi e peraltro non completi di bidet e doccia) sono tenuti male e insufficienti alle 65 persone presenti. Le stanze da letto per 100 mq. circa ospitano 65 persone. Il sovraffollamento è evidente, l'igiene carente, il disordine assoluto. La destinazione dell'immobile è per uso rurale ... l'impianto elettrico è con fili volanti e con prese non idonee; il tutto rappresenta un pericolo per la sicurezza degli ospiti come degli staff».

Quanto al Narconon di Castelnuovo Bormida, «lo spazio utilizzato è enorme, ma in atto le camere da letto ospitano in letti a castello persone in sovrannumero rispetto all'area dei vani utilizzati. I servizi igienici sono pochi rispetto alla presenze soprattutto distribuiti in modo non opportuno in particolare lontani dalle zone letto. La situazione dal punto di vista igienico sanitario appare carente a prima vista soprattutto in considerazione del disordine nelle zone letto e della sporcizia e del disordine evidente in cucina, nel refettorio e nei locali adibiti a servizi igienici».

Le condizioni sono pressoché analoghe nel Narconon di Raviscavina («regna il disordine ... impressione di sporco ... il pozzo nero pare non sia mai stato scaricato ... i rifiuti solidi accantonati»), nel Narconon di Pallare («abitazione posta su di una montagna ... di difficile accesso ... composta da un salone <scarsamente pulito> da una cucina con camino a legna <scarsamente pulita>; 5 camere con letti a castello... 3 bagni di cui uno non funzionante ... l'impianto di riscaldamento nella camere da letto è elettrico non funzionante ... la sauna è collocata nel garage, che presenta problemi di pulizia e di pericolo poiché vi sono dei fili di corrente scoperti a contatto con l'acqua»), nel Narconon di Albissola («un bagno interno non funzionante e 3 bagni esterni, di cui due non funzionanti perché otturati ... il camerone ha 16 letti affollato e disordinato ... le camere presentano il problema dell'affollamento essendo piccole o poco aerate. L'impianto elettrico necessita di intervento nella camera adibita a sauna, dove si trova pure la lavatrice non funzionante con una montagna di biancheria sporca e impregnata di acqua»).

La conclusione di questa disamina la si rinviene in una significativa lettera inviata il successivo 17.4.1986 dall'avv. LEALE a ZA. (rinvenuta sempre in occasione della perquisizione compiuta nello studio del legale di cui si è prima parlato), in cui l'avv. LEALE faceva presente di avere consigliato tre adempimenti fondamentali e il «non aver fatto fronte a queste primarie necessità da noi ripetutamente segnalate, mette in difficoltà i Narconon nei confronti di eventuali provvedimenti delle autorità sanitarie locali», aggiungendo con una certa perentorietà: «non si può giustificare l'inadempienza per mancanza di fondi anche perché, da una superficiale lettura dei Vostri bilanci, una simile affermazione non trova fondamento».

Ma evidentemente la volontà di non spendere soldi in qualcosa che nella loro visione appariva come irrilevante, riguardando solo le condizioni di vita dei tossicodipendenti e dei membri dello staff, anch'essi già tossicodipendenti e sottopagati per il loro lavoro, deve essere stata più forte dei "suggerimenti" dati dal loro legale, tanto è vero che all'epoca delle perquisizioni disposte dall'autorità giudiziaria, avvenute nel dicembre successivo, la situazione non si era sostanzialmente modificata.


c) Gli operatori dei Narconon

Dunque questa era la situazione dei centri fino al momento della loro chiusura. Ma le condizioni di addestramento degli operatori non erano sostanzialmente migliori, ove si consideri che costoro, tutti tosssicodipendenti, entravano a far parte dello staff, dopo un periodo trascorso in un centro Narconon per disintossicarsi e un breve corso seguito a Futura (dove si svolgevano cicli di etica, per svuotarsi dai propri sensi di colpa, come ha messo in rilievo la DeS., che ha appunto percorso questo cammino).

È vero che tutte le comunità per il recupero dei tossicodipententi utilizzano la collaborazione di persone, che - essendo uscite dal tunnel della droga - conoscono bene il fenomeno e sono perciò in grado di dare un aiuto ben più pregnante a coloro che si trovano nella situazione da loro precedentemente vissuta.

È, però, anche vero che questi collaboratori devono essersi completamente liberati dalla tossicodipendenza anche psicologicamente, in modo da non correre più alcun rischio di potervi ricadere, dati gli stretti rapporti con giovani che ancora fanno parte di quel mondo e che potrebbero creare loro le condizioni per ripiombarvi, se la loro uscita di lì non fosse stata realmente definitiva (è significativo al riguardo il caso S., che forma il capo 45 dell'imputazione).

Per diventare operatore nei centri Narconon non era, invece, richiesto un simile requisito, essendo sufficiente che l'aspirante fosse stato ospitato lì per la sua tossicodipendenza per un certo periodo, avesse manifestato la volontà di entrare a far parte dello staff e avesse quindi seguito quel breve addestramento, con cicli di etica, di cui si è detto, presso la Futura (come ad esempio è successo per i congiunti dei testi M., F., B., DiM., solo per citare alcuni dei testi, le cui dichiarazioni sono state messe in evidenza dall'avv. VANNI, sia pure sotto un altro profilo, nella documentazione da lui prodotta in udienza).

Il risultato era che la maggior parte di operatori così scelti e formati non era in grado di effettuare alcun serio controllo sugli ospiti, tanto è vero che in molti hanno riferito che ci si continuava tranquillamente a "bucare" anche nei centri, non venendo in alcun modo impedito ai giovani di uscire per procurarsi la droga; di più: anche gli stessi operatori riprendevano ineluttabilmente ad assumere sostanze stupefacenti.

Le predette circostanze sono state, infatti, innanzi tutto esposte da vari testi, quali ad esempio DiM., G., S., V., M., B., V. (il quale ha precisato di avere visto frequentemente i responsabili dei diversi Narconon recarsi nella sede di Futura per fare cicli di etica, perché si "erano bucati"), DeS. (che, avendo vissuto l'esperienza in prima persona, ha spiegato che finché si era caricati dai cicli di etica subiti e dalla voglia di aiutare gli altri si riusciva a non drogarsi, cosa in cui invece si cadeva appena ci si rilassava, ovvero si era sopraffatti dallo stress).

Lo stesso imputato DeZ., pur cercando di minimizzare gli accaduti, ha dovuto ammettere di essersi "bucato" anche quando svolgeva attività di operatore, come hanno riconosciuto anche altri imputati.

Ma se queste risultanze non fossero sufficienti a far ritenere dimostrato che coloro, che avrebbero dovuto aiutare i tossicodipendenti, erano anch'essi ancora facile preda della droga (dando perciò un pessimo esempio a chi doveva compiere sforzi sovrumani per resistere all'assunzione di stupefacenti), una prova inequivocabile al riguardo si può rinvenire nei famosi o/w (di cui si è parlato poco prima), che sono stati recuperati dagli operanti e acquisiti agli atti: in moltissimi di essi si possono, infatti, leggere le ripetute "confessioni" di responsabili e operatori di vari centri di essersi drogati, segno che questa non era l'eccezione, ma quasi una regola.

In altre parole un compito così importante, quale la cura di tossicodipendenti, era affidato a persone palesemente inadatte, perché non ancora recuperate completamente dalla droga; in ogni caso gli addestratori non si peritavano di accertare che costoro si fossero disintossicati sotto tutti i profili prima di attribuire loro un ruolo così delicato: è significativo al riguardo il caso di un certo S., che era stato nominato operatore al centro di Castelmadama, dopo appena un mese che era entrato nel centro (e che evidentemente non aveva ancora avuto né tempo, né modo di disintossicarsi).

Si deve, poi, segnalare che nessuno degli operatori risulta essere mai stato destituito, perché sorpreso a "bucarsi", venendo solo imposta, come punizione, la sottoposizione a cicli di etica, come ha messo in rilievo la DeS. e come si rileva inoltre dalle dichiarazioni del G. (anch'egli tossicodipendente, entrato poi come staff nel centro di Villanova "per rimetterlo in sesto").

Sembra, perciò, doversi dedurre da tutti i dati sin qui raccolti che i Narconon erano stati costituiti all'insegna della più completa improvvisazione, essendo privi di qualsiasi solida struttura, che li sorreggesse, in grado cioè di far funzionare quel metodo di HUBBARD, di cui si è detto, come se fosse stato ritenuto più importante mettere in piedi subito una vasta organizzazione, qualunque difetto o carenza essa avesse, piuttosto che creare un organismo valido ed efficace per il recupero dei tossicodipendenti, che avrebbe però richiesto tempo e denaro e che non avrebbe comunque potuto essere impiantato immediatamente su larga scala, come invece era avvenuto per i Narconon.

Questa conclusione sembra sia stata tratta anche dal Presidente della sezione specializzata per le tossicodipendenze del Tribunale di Genova, che in data 2.10.1985 aveva inviato alle varie autorità competenti una relazione sui centri Narconon (quello stesso presidente che, evidentemente non serbando memoria di quella sua dettagliata relazione di circa otto anni prima, ha nel maggio 1993 firmato un provvedimento di concessione ad un imputato degli arresti domiciliari in uno dei predetti centri, provvedimento prodotto nella discussione finale dall'avv. BIONDI).

In questa relazione (che si può leggere nel faldone 79) venivano, infatti, evidenziati, sulla base delle indagini svolte: a) «la somministrazione di farmaci ... senza adeguati controlli medici»; b) «la assoluta inosservanza delle più elementari norme igieniche e di sicurezza»; c) «le alte somme richieste agli utenti ... di contro alla affermata liberalità delle donazioni»; d) «l'assoluta mancanza di criteri selezionatori dei responsabili»; e) «l'utilizzazione degli utenti per attività di propaganda a domicilio»; f) «infine, la scarsa trasparenza dell'Associazione che funge da centro finanziario di tutte le comunità Narconon, la Lega per una Civiltà libera dalla droga»; dati questi che davano già di per sé atto di una situazione «preoccupante, in alcuni casi al limite della liceità».


d) Le contribuzioni versate al Narconon

Ebbene, a fronte di queste carenze, che riguardavano sia l'organizzazione interna, sia la preparazione degli operatori, i familiari dei tossicodipendenti erano costretti a versare rette mensili, che - secondo le osservazioni della teste T. - gli organizzatori «chiamavano donazioni, anche se erano obbligatorie», (il teste L. a sua volta ha precisato che queste erano così «spontanee» che, in caso di mancato versamento, «il tossico veniva cacciato») e che si aggiravano fra L. 1.400.000 del 1984, e L. 1.800.000 - 2.000.000 del 1986.

Queste somme non erano certamente modeste (specie se rapportate agli anni 82 - 86, in cui la moneta aveva un valore dal doppio ad una volta e mezza rispetto all'attuale), ove si consideri la sistemazione degli ospiti, lo scarso addestramento degli operatori, che per di più venivano retribuiti in maniera irrisoria (circa L. 200.000 mensili), la totale mancanza di una équipe di psicologi (per aiutare i tossicodipendenti nei momenti più difficili, équipe che è invece notoriamente presente in questo tipo di comunità e la cui assenza - sia pure giustificata dai metodi di Hubbard - comportava comunque una consistente riduzione delle spese), il pressoché inesistente controllo da parte di medici (a cui al massimo era affidato un preventivo esame del giovane, che doveva sottoporsi a saune, ma ai quali non veniva mai chiesto di visitare o tenere d'occhio le condizioni fisiche degli ospiti della comunità, v. in particolare le dichiarazioni del teste V.; del resto dalla relazione compiuta dall'avv. LEALE sui Narconon, citata in precedenza, risulta che nella stragrande maggioranza dei centri visitati non vi era nemmeno un locale per la eventuale sistemazione di un medico).

Queste considerazioni trovano una sostanziale conferma nella relazione della dott. Nicoletta GOLDSMIDT della USSL di Carcare, inviata il 12.12.1986 ai carabinieri di quello stesso posto (reperibile nel faldone 86).

In detta relazione, la GOLDSMIDT - dopo avere esposto le condizioni in cui operava il centro di Pallare - metteva in evidenza che «né le terapie prestate né le caratteristiche dell'ambiente messo a disposizione degli ospiti, giustificano la richiesta di L. 60.000 al giorno per ospite», ponendo poi l'accento sul fatto che le Comunità Terapeutiche, convenzionate con la regione Liguria, «ricevono L. 34.000 al giorno per utente e offrono ben diverse garanzie rispetto ai metodi utilizzati e alle prestazioni erogate».

Di più. Non solo queste rette erano di importo non irrilevante e comunque ben superiore, come si è visto, alle controprestazioni fornite, ma addirittura dovevano essere versate tutte e subito, tanto è vero che - come ha messo in rilievo la teste DeB. - se per caso il marito tardava anche di pochi giorni nel pagamento della retta, «la direzione del centro telefonava minacciando la sospensione della terapia».

In effetti, benché diversi imputati abbiano sostenuto che venivano accolti nei centri anche giovani, i cui familiari non erano in grado di pagare la contribuzione, una simile circostanza è stata invece esclusa da tutti coloro che sono stati ascoltati sul punto dai Carabinieri e dal Giudice Istruttore (la DeS. - al dibattimento - ha tenuto a precisare che l'unica persona che le risultasse non avesse pagato la quota era una certa Gabriella, che era però l'amica di DeZ., responsabile del centro).

Le affermazioni di questi testi trovano poi conferma in due fonti di sicuro rilievo: il V., che per le sue funzioni di contabile doveva ben essere al corrente di questa materia, ha, infatti, precisato che «vi era una direttiva di ZA. che escludeva l'accoglimento di chi non avesse prima pagato», e la R., che aveva lavorato come operatore nel centro di S.Quirico, ha dichiarato testualmente: «con mio marito avevo pensato di accantonare le somme ricevute per consentire a chi non aveva i mezzi di poter frequentare, ma fummo censurati; la regola era che per essere ammessi si doveva pagare la retta senza alcuna possibilità di aiuto da parte dell'organizzazione».

Dunque i familiari dovevano versare in anticipo somme non indifferenti e che non avevano nemmeno quella funzione di solidarietà, come alcuni imputati hanno sostenuto. È, perciò, dimostrato che essi versavano almeno il 50% in più rispetto ai servizi loro forniti, dato che abbiamo visto che - secondo l'esperto V. - quella percentuale delle rette veniva trattenuta dalla Lega, dopo i versamenti fatti ai vari centri e alla Futura; circostanza questa che viene confermata anche dalla teste S., che - essendosi lamentata con ZA. del fatto che le facevano anche pagare i cicli di etica a cui veniva sottoposto il figlio per la minima infrazione - aveva saputo direttamente dallo stesso ZA. che solo una parte della somma da lei versata andava ai centri, «mentre il resto lo percepiva la Lega per spese varie anche legali».

Poiché è risultato che con tale percentuale non venivano ospitati tossicodipendenti in stato di indigenza e considerato che l'altro argomento esposto da ZA., di avere cioè utilizzato quel denaro per opere di propaganda e prevenzione della tossicodipendenza, non ha trovato alcun riscontro documentale (senza contare che - vista l'entità delle rette e della percentuale rimasta alla Lega - non si comprende come lo ZA. avrebbe potuto consumare così tanto denaro in simili opere), si deve allora concludere che la gestione dei centri portava inequivocabilmente nelle casse della Lega una grande quantità di utili, a cui si aggiungeva quello dato dalla vendita dei libri di HUBBARD.

Infatti, unitamente al pagamento della retta veniva imposto l'acquisto di tutto il materiale (anch'esso di prezzo non indifferente, ammontando mediamente a L. 800.000), che avrebbe dovuto servire nella terza fase, anche se frequentemente i tossicodipendenti si allontanavano ben prima: lo hanno esplicitamente dichiarato ad esempio i testi S., R., S., B., C., B., DL., G., H., F., P., A.; e lo ha confermato il contabile V., che ha altresì messo in rilievo che il costo dei libri non veniva comunque mai rimborsato.

Ma se era impossibile avere il rimborso dei libri, era comunque estremamente difficoltoso anche il rimborso delle rette pagate, sempre anticipatamente, nei frequenti casi in cui il tossicodipendente si era allontanato dal centro, senza avere usufruito dei servizi. Lo hanno dichiarato ad esempio i testi A., D., G., M., M., P., affermazioni queste che trovano puntuale riscontro nella famosa agenda sequestrata in via Zurigo, riguardante appunto le richieste di rimborso, molte delle quali concernevano proprio i centri Narconon.

Nonostante questi ingenti guadagni, si tendeva - secondo il teste G. - ad accettare nei centri «più presenze del consentito» [circostanza confermata dalla relazione dell'avv. Leale, in cui si dava appunto ripetutamente conto di una situazione di sovraffollamento], «perché i soldi non bastavano mai ... era venuta l'ossessione delle statistiche» [in relazione cioè alla vendita di libri e corsi, come ha spiegato il contabile V.], «anche perché vi era una sorta di gara fra i vari Narconon». Questo concetto è stato ribadito dalla DeS, che era addirittura «angosciata dalle statistiche» [nel senso sopra precisato], venendole talora anche imposto di «vendere libri entro un certo periodo, anche se la cosa era difficile, perché troppo cari», e confermato dal V. all'udienza del 26.10.1989 («si dava molta importanza alle statistiche»).


e) Scopi dei Narconon

Da tutti questi dati sin qui raccolti si può ritenere che l'impressione avuta da P.D. («l'unica preoccupazione di quella gente erano i soldi») corrispondesse alla realtà (conformemente a quanto avveniva per l'istituto di dianetica), apparendo, invece, il recupero effettivo dei tossicodipendenti come un problema del tutto marginale e di secondo piano, conclusione questa che trova riscontro in un rilievo esposto dal V., al dibattimento.

Egli ha, infatti, spiegato che «si facevano le statistiche di successo dopo una settimana dall'uscita del giovane dai centri e non dopo sei mesi/un anno come si dovrebbe», dato che soltanto in quest'ultimo modo si può verificare se il tossicodipendente è veramente uscito dalla droga o se vi è nel frattempo ricaduto. Anche questo metodo di valutare i successi dimostra pertanto inequivocabilmente l'irrilevanza per i responsabili che il giovane si fosse effettivamente disintossicato, dal momento che una statistica così fasulla poteva evidentemente soltanto servire per reclutare nuove persone, che pagassero.

Ma se questo era il vero scopo nella costituzione dei centri Narconon (ed è significativa una lettera rinvenuta in via Zurigo - v. all. 24/a vol.44 - in cui questi centri vengono definiti come una vera e propria «miniera d'oro»), se l'interesse per l'effettivo recupero del tossicodipendente si era manifestato come marginale, se, infine, i familiari dei giovani lì ricoverati avevano dovuto pagare anticipatamente somme ben superiori agli scadenti servizi, che poi ricevevano (vista la pessima sistemazione e la scarsa professionalità degli operatori), non riuscendo frequentemente a recuperare quanto versato per servizi poi non goduti, si deve allora ritenere che costituisca una indubbia metodica truffaldina già l'offrire una sistemazione (apparentemente idonea, ma in realtà completamente inadeguata) e il prospettare a genitori disperati, che - secondo la B. - quando hanno un figlio tossico, «sono portati ad illudersi e ad aggrapparsi ad ogni speranza» (concetto esattamente ribadito anche dalla T.), la possibilità di ricoverare e curare il loro figliolo, avendo - invece - di mira anziché il benessere di costui soltanto il conseguimento dei loro soldi.

Questa conclusione in ordine ad una attività truffaldina svolta sostanzialmente da questi centri trova una sua ulteriore conferma ove si consideri che in molti casi, pur di attirare ospiti paganti:

  1. li si andava a cercare addirittura a casa, appena saputo della loro situazione di tossicodipendenza o mediante una telefonata fatta dai familiari degli stessi interessati alla ricerca di informazioni sul loro conto ovvero attraverso la comunicazione di terzi (che in questo modo riuscivano a conseguire una provvigione o comunque dei vantaggi): emblematici sono i casi DeF. e B., ma si possono ricordare anche le dichiarazioni in tal senso di G.G., S.G., A.A., S.R., T.D., R.C., P.A., a cui si possono aggiungere quelle, già in atti, ma contenute per una più agevole lettura nella raccolta prodotta al dibattimento dall'avv. VANNI, dei testi C., G., M., B., DL., G., R., C.. Questo comportamento, così in contrasto con il principio attuato da tutte le altre comunità di accogliere soltanto le persone che si possono adeguatamente curare e cercare di recuperare (v. ad esempio il caso DiM., messo in lista di attesa nella comunità di San Patrignano), risulta, invece, in piena linea con lo scopo di un totale ed esclusivo profitto (nuovi ospiti avrebbero infatti comunque portato nuove entrate);

  2. si arrivava a garantire il loro completo recupero in un tempo ristretto e ben determinato (che variava dai tre ai sei mesi, massimo un anno).

Lo hanno affermato sia, nella quasi totalità, le 52 parti lese del capo 39), sia anche altri testi, quali ad esempio A.G., A.M., A.G., DiM.L., I.E., S.D., T.D., V.E., Z.M., M.P., C.P., T.L..

Vero è che i difensori, in specie l'avv. VANNI e l'avv. LEALE, hanno addotto le deposizioni di altre persone, che, a loro dire, avrebbero sostenuto di non avere ricevuto assicurazioni circa il buon esito della cura, dipendente in buona parte - secondo quanto loro riferito dagli operatori - dalla volontà del drogato di disintossicarsi o comunque di essere riusciti, successivamente al ricovero nei centri Narconon, ad allontanarsi dalla droga.

Innanzi tutto qui non si contesta che persone entrate in Narconon siano state in grado alla fine di recuperarsi dalla droga (anche se: a) nei numerosi casi allegati dall'avv. VANNI ben poche risultano le affermazioni che il congiunto era riuscito a disintossicarsi; b) la F. ad esempio ha precisato che nove su dieci riprendevano ad assumere sostanze stupefacenti, (mettendo poi in rilievo - con un certo orgoglio - di essersi riuscita a disintossicare, «perché l'avevo voluto io»), bensì che queste persone siano state indotte ad entrare nel centro, e quindi ad effettuare gli esborsi di cui si è detto sopra, con una falsa prospettazione della realtà.

Ma, anche a prescindere da questa considerazione, si deve, in ogni caso, mettere in evidenza che le famose dichiarazioni prodotte ad esempio dall'avv. VANNI, che per il loro numero sono state riunite in un apposito raccoglitore e sono state sottolineate nella parte che confermerebbe la tesi difensiva (spesso omettendo, però, di segnalare la frase successiva, che modificava il senso di quella sottolineata) non offrono, a ben vedere - quella interpretazione sostenuta dalla difesa, di cui si è detto in precedenza.

Esaminando queste dichiarazioni (sono, infatti, ben 92 raccolte da polizia o carabinieri, una dal G.I. e qualche altra nel dibattimento di primo grado, queste ultime, però, di ben minore interesse, perché per lo più provenienti dagli stessi tossicodipendenti, meno informati al riguardo, spesso diventati simpatizzanti dell'organizzazione) si arriva alla conclusione che soltanto 11 persone su 92 hanno affermato che gli operatori avevano onestamente prospettato che ogni possibilità di successo dipendeva soltanto dalla volontà del drogato di disintossicarsi realmente.

Lo hanno, infatti, dichiarato i testi B., M., F., G., M., C., B., G., P., C., e la B., che, però, al G.I. ha precisato che il fratello era poi entrato alla SOCO (dando così atto di un suo particolare collegamento con tale organizzazione, tale da poter cioè influenzare il suo ricordo).

A questi testi si possono aggiungerne altri due, indicati dall'avv. LEALE (S. e M., gli altri sostanzialmente si sovrappongono a quelli già citati dall'avv. VANNI), nonché ulteriori cinque persone, H., A., F., M., S., le quali hanno precisato di non aver ricevuto alcuna promessa dagli operatori, rimanendo, però, non del tutto chiaro se questi ultimi avevano spiegato che in quel campo non si poteva offrire alcuna garanzia circa il buon esito del trattamento, ovvero se si erano limitati a tacere sul punto.

Tolti questi pochi casi e tenuto conto che - secondo il teste D'A. - gli era stato promesso che avrebbero inserito il figlio nello staff, segno che si prospettava comunque un suo recupero, e che i testi F. e R. hanno messo in rilievo che gli operatori avevano loro assicurato una assidua assistenza, tutte le altre deposizioni si possono grosso modo suddividere in due nutriti gruppi.

Il primo è composto da un po' meno di una quarantina di casi, in cui, anche se non veniva precisato un successo nella misura del 100%, si dava comunque l'impressione che la buona riuscita della cura fosse pressoché certa e comunque altamente probabile (con percentuali varianti fra il 70 e il 90%), venendo talvolta anche vantate statistiche di elevati successi ottenuti in quello specifico centro, come ad esempio hanno riferito i testi B. L. e S.B.; statistiche che però erano ben lontane dalla realtà, se erano redatte nel modo indicato dal V. al dibattimento; senza contare poi che la DeB. aveva sostenuto che ben nove su dieci ospiti dei centri ricadevano nella droga.

Si è, perciò, in ogni caso offerta una prospettazione della realtà non corrispondente al vero, proprio perché - lo si ripete - in quel campo nessuno è in grado di poter prevedere un determinato risultato, tanto più se si agisce con quell'improvvisazione e carenza di preparazione che si sono viste nell'organizzazione dei Narconon; prospettazione che, pur con quel piccolo margine di incertezza che si è messo sopra in evidenza, era, però, comunque idonea a convincere persone così fragili e pronte ad aggrapparsi ad ogni speranza, come sono notoriamente i familiari dei tossicodipendenti.

Ha dipinto perfettamente questa situazione proprio uno dei testi (di cui alla suddetta raccolta): il L., al quale «avevano ventilato l'idea che se [il figlio] fosse rimasto per un lungo periodo forse sarebbe riuscito a disintossicarsi», si è, infatti, lasciato scappare: «per un padre in apprensione era già troppo quello che veniva fatto».

Il secondo gruppo di casi (in numero pressoché corrispondente al precedente) è costituito dalle dichiarazioni di familiari, ai quali, garantendo il successo della cura con sicurezza o comunque con buone probabilità, lo si era fatto dipendere in tutto o in parte anche dal comportamento del drogato. Se questa ipotesi, a prima vista, può apparire analoga a quella degli 11 casi esposti all'inizio, ne differisce, però, profondamente.

In quei casi, infatti, il verificarsi della condizione dipendeva dalla volontà del tossicodipendente di disintossicarsi, in altre parole si metteva l'accento su tutto quel complesso di condizioni, suggestioni e problemi che lo avevano fatto diventare un consumatore abituale di droga e che dovevano essere risolti per consentire una sua uscita definitiva dalla tossicodipendenza, messaggio questo non solo che non nascondeva le difficoltà gravissima di risoluzione del caso, ma inoltre aderente a quella che è l'opinione di tutti gli esperti.

Negli altri numerosi casi, qui in esame, il discorso compiuto dagli operatori era invece ben diverso, dal momento che il comportamento del tossicodipendente, da cui dipendeva la riuscita del trattamento, si riduceva a «seguire le loro teorie e ad applicare gli insegnamenti», come ha riferito il teste P. e come è la sostanza dei discorsi dell'ulteriore trentina di testi che hanno reso dichiarazioni in senso analogo: ad esempio i testi B. N. e P. M. hanno messo in rilievo che - secondo gli operatori - il figlio avrebbe dovuto «seguire la terapia e assimilare i libri», affinché il trattamento avesse successo; oppure i testi B.E. e P. U. hanno precisato che la condizione necessaria per la disintossicazione risiedeva nel fatto che il figlio «si fosse attenuto scrupolosamente alle regole di permanenza del centro stesso».

Ebbene, se si tengono presenti queste dichiarazioni (e si ripete che sono nello stesso identico senso le numerose altre che solo per brevità non vengono citate appartenenti ad esempio ai testi C., P., R., B., F., T., M., DL., B., L., B., B., G., P., F. e così via), non si può non apprezzare che il loro significato diverge - sottilmente, ma in maniera determinante - dal senso che vi ha voluto dare la difesa.

In sostanza, infatti, il discorso degli operatori nei casi qui in esame ha lasciato chiaramente intendere che un eventuale e remoto insuccesso poteva derivare non già dall'imponderabile personalità del tossicodipendente, ovvero dalle più disparate motivazioni che lo avevano portato a drogarsi (e che potevano ancora permanere, rendendo vano ogni tentativo), ovvero ancora dall'inadeguatezza del trattamento usato specificamente nei suo confronti, bensì soltanto dalla cattiva volontà del giovane, che non aveva voglia di seguire i corsi e apprendere gli insegnamenti impartitigli. In altre parole anche in questo modo si ribadiva la bontà della cura e i suoi buoni esiti, offrendo perciò quella falsa prospettazione della realtà di cui si è detto.

Il fatto poi di addebitare comunque il pur sempre possibile insuccesso a qualcosa sì di estraneo al loro metodo e al modo in cui eseguivano i trattamenti, ma non di imponderabile, come la complessità della situazione di un tossicodipendente, bensì di banale e controllabile, come la mera svogliatezza e non applicazione da parte per di più di una persona giovane contribuiva ulteriormente a creare una falsa immagine di perfetta organizzazione, che usufruiva di un metodo ottimo ed infallibile.

E che questo effetto, così ricercato, si verificasse effettivamente su coloro che dovevano poi pagare le rette, è dimostrato dal rilievo che costoro, quando il loro congiunto o si allontanava dal centro o comunque continuava a drogarsi, si precipitavano a riportarlo nel centro e a continuare a pagare le rette o a provare i corsi più costosi di dianetica, nell'illusione loro data sin dall'inizio che se il congiunto avesse mostrato un po' più di buona volontà il sistema avrebbe funzionato (v. ad esempio le dichiarazioni di DP., DiM., I., P., S., M., B.).

Ciò posto, e considerato:

  1. che una vera e propria marea di persone sono state sentite in istruttoria in relazione ai loro rapporti con i centri Narconon, tanto da occupare non soltanto, in parte, i faldoni 35-36 (quando sono stati assunti come testi dal G.I.), ma altresì quasi completamente i faldoni 80-88;

  2. che nell'ambito di questi numerosi testi la difesa ne ha estrapolati circa un centinaio, evidentemente più vicini alla propria tesi (come da documentazione prodotta);

  3. che in questo centinaio, poco più di una dozzina di persone ha escluso di aver ricevuto qualsiasi forma di garanzia sul buon esito del trattamento,

si deve allora mettere in rilievo che una elevatissima percentuale di testi ha, invece, ricevuto assicurazioni dagli operatori (in termini di certezza o almeno di buona probabilità).

Di qui la conclusione che la prospettazione di una sicura o quanto meno pressoché certa disintossicazione del drogato in un periodo di tempo normalmente predeterminato, con l'ascrivibilità di un eventuale insuccesso soltanto alla svogliatezza dello stesso tossicodipendente, costituiva un metodo piuttosto abituale per reclutare nuovi ospiti paganti, tanto più se era necessario vincere resistenze da parte di familiari recalcitranti o in difficoltà economiche a versare anticipatamente somme non indifferenti (la teste D. ha ad esempio messo in evidenza le difficoltà sue e del marito, che insieme guadagnavano mensilmente L. 2.000.000, a corrisponderne L. 1.800.000 ogni mese al Narconon di Castellina).

È, infatti, da segnalare che proprio leggendo le numerose dichiarazioni, raccolte dalla difesa, e constatando che sono rarissimi i casi in cui gli operatori hanno messo in guardia i familiari dei drogati da troppo facili entusiasmi, vista la complessità della situazione dei tossicodipendenti, si può arrivare alla conclusione che questa era l'eccezione, affidata a pochi operatori più scrupolosi, rispetto alla norma costituita dagli affidamenti sopra citati.


f) Conclusioni

Ebbene, se si tiene presente, da un lato: 1) che l'effettivo recupero anche psicologico dei tossicodipendenti è uno dei problemi più gravi di questi tempi; 2) che nessuna comunità è in grado di fornire assicurazioni in proposito, come ben sa chiunque abbia avuto a che fare con queste istituzioni e, dall'altro, che i centri Narconon offrivano collaboratori ben poco addestrati e con scarsa professionalità (come si è visto in precedenza), si deve allora ritenere che la prospettazione di una sicura guarigione, per di più spesso in tempi brevi e prefissati, costituiva una indubbia alterazione della realtà, che era tanto più efficace e convincente per genitori disperati, che vedevano quel percorso «come un'ultima spiaggia», vuoi perché, reduci da altri infruttuosi tentativi (il G. aveva, infatti, già girato sei comunità, il M. a sua volta tre), vuoi perché incapaci di trovare un posto nelle comunità allora ancora del tutto insufficienti (v. ad esempio il caso DiM. ovvero quello descritto dal teste B.).

Si deve, perciò, ritenere, nella specie dimostrato:

  1. che operatori diversi in centri diversi hanno utilizzato questo inganno per reclutare altri ospiti paganti, non indietreggiando nemmeno di fronte ad una sorta di ricatto morale («per la vita di un figlio non si ha diritto di badare a spese», come ha riferito la teste T. e come ha messo in evidenza il M., precisando che gli operatori avevano in quel modo fatto sentire la moglie «come Cristo in croce») nei casi di maggiori resistenze;

  2. che l'accoglienza di un nuovo ospite nei centri prescindeva completamente dal benessere del drogato e dalla volontà di recuperarlo, viste l'organizzazione e la scarsa professionalità degli operatori; si tendeva, inoltre, a non avvertire le famiglie, in caso di fuga dai centri dei loro congiunti (come ha messo in rilievo la teste P.) e ad attribuire la colpa dei frequenti insuccessi al tossicodipendente e alla sua cattiva volontà, non mettendo, invece, mai in discussione né il metodo né le modalità con cui era stato attuato, in modo che si continuassero i versamenti delle rette (talora suggerendo addirittura i più costosi corsi di Scientology, come si metterà meglio in evidenza trattando i singoli casi);

  3. che l'attività degli operatori era sostanzialmente incentrata sul problema delle buone statistiche, nel senso di conseguimento di maggior introiti per l'organizzazione, come si è precedentemente visto: il teste G. (entrato come staff nel centro di Villanova) ha anche messo in rilievo che «si guardava sia alle entrate [cioè di denaro] ma anche al numero di ospiti e ai successi riportati», precisando però subito dopo che detti «successi» non si riferivano al fatto del buon esito della terapia, ma soltanto alla circostanza che «un ragazzo rimaneva come staff», lavorando quindi a tempo pieno per una modesta ricompensa (come aveva messo in evidenza la DES. e anche molti degli imputati, responsabili dei vari centri).

Se quindi si considera che in modo generale e diffuso si traevano in inganno i familiari dei tossicodipendenti sulla bontà di una cura, che non presentava i requisiti della serietà per il modo in cui veniva attuata; se poi si aggiunge che questo inganno doveva portare ad esborsi rilevanti, che comunque non corrispondevano alle controprestazioni ricevute; se, infine, si tiene conto che anche per i Narconon vi era una organizzazione verticistica, che faceva capo alle persone che - guidando le due società di riferimento dei centri - davano le direttive sia in tema finanziario, sia di comportamento nell'ambito dei singoli centri (come si è osservato in precedenza), si deve allora concludere che anche per i Narconon sussistono senza ombra di dubbio gli estremi di una associazione per delinquere. [N.B. Questa conclusione dei giudici di merito è stata cassata dalla Suprema Corte - N.d.R.].

Infatti, una pluralità di persone (e si vedrà in seguito in collegamento con l'istituto di Dianetica prima e con la chiesa di Scientology dopo) si erano date una struttura ed un'organizzazione per riuscire a persuadere un numero indeterminato di persone a versare somme rilevanti sulla base di una falsa prospettazione della realtà, con riguardo alla bontà sia dei servizi resi sia della cura offerta; in altre parole la struttura e l'organizzazione, con suddivisione di ruoli, erano volte a commettere una serie indefinita di truffe, integrando perciò inequivocabilmente gli estremi del reato di cui all'art.416 c.p.


g) I rapporti con Scientology

Il Procuratore Generale, nell'affermare l'esistenza del reato di cui sopra, ha però sostenuto che l'organizzazione dei Narconon costituiva una associazione a delinquere autonoma e indipendente rispetto alla chiesa di Scientology, per la quale si è già affermata questa qualità di organizzazione illecita [N.B. Questa conclusione dei giudici di merito è stata cassata dalla Suprema Corte - N.d.R.].

La Corte non ritiene, però, di condividere una simile impostazione, dal momento che dagli atti processuali sembra invece doversi desumere che i Narconon sono stati solo un aspetto dell'attività illecita di Scientology, essendo strettamente legati ad essa e perseguendo i suoi medesimi fini, precisamente «far soldi ad ogni costo».

In sostanza i centri Narconon, costituiti nel 1982, in un'epoca cioè in cui l'istituto di Dianetica aveva già modificato il suo indirizzo, in una esasperata ricerca di acquisire sempre maggiori clienti per aumentare le statistiche di produttività in relazione agli introiti incamerati, erano venuti a riempire una carenza nell'attività dell'istituto, che non aveva potuto acquisire quel largo bacino di utenza dato dai tossicodipendenti.

Vero è che detto istituto si era talvolta occupato direttamente di giovani tossicodipendenti, offrendo anche ad essi una cura per i loro problemi, con i corsi di "purification" non molto differenti dalle saune offerte come terapia nei Narconon, e con le sedute di "auditing": si possono ricordare, ad esempio il caso B. e quello della C. che aveva avuto anche un passato di assunzione di eroina.

Si è trattato, però, di casi del tutto sporadici, dato che l'istituto di dianetica non aveva comunque le caratteristiche per invogliare un largo pubblico, mancando totalmente di quella struttura così necessaria per la cura dei tossicodipendenti, precisamente un sistema di comunità, dove ospitare e tenere sotto controllo il drogato, sistema indubbiamente richiesto dalle famiglie, che non potevano fidarsi di lasciare il proprio congiunto libero di se stesso in grandi città (come si rileva ad esempio dalle preoccupazioni manifestate dai M. e dai B.).

E che i centri Narconon siano stati fondati per colmare quella lacuna, manifestatasi nell'attività di Scientology, rispetto a tanti possibili nuovi utenti (quali le schiere di tossicodipendenti, accompagnati dai loro dolenti familiari) e quindi per portare ulteriori rilevantissimi introiti, evidentemente anche all'organizzazione "madre", lo si può ricavare da un altro documento, rinvenuto nella sede di via Zurigo, e quindi preparato e conservato nell'ambito di Scientology come sorta di direttiva per gli aderenti a questa organizzazione.

Infatti in detto documento, che costituisce l'all. 24/d al rapporto della Guardia di Finanza del 23.2.1988 (contenuto nel faldone 44), si legge che i Narconon, definiti dagli Scientology anche come «una miniera d'oro» (nell'all. 24/b, rinvenuto sempre in via Zurigo), sono da loro considerati come un vero e proprio «Pozzo di San Patrizio», con la conseguente ingiunzione di «non trascurarli mai, mai, mai».

Di qui la conclusione che un simile interessamento, esclusivamente sotto il profilo economico, ai centri in questione non poteva che derivare dal fatto che essi avevano una influenza proprio dal punto di vista economico nei confronti della istituto di Dianetica, a cui dovevano evidentemente far confluire almeno in una parte rilevante i loro proventi (altrimenti non si spiegherebbe la ripetuta esortazione di «non trascurarli mai»), legame questo del resto ipotizzato anche dal teste V. (v. deposizione al G.I. del 9.4.87), il quale aveva indicato nella società Futura (che tra l'altro distribuiva ai centri il materiale di Ron HUBBARD) il tramite fra questi ultimi e Scientology.

Ma oltre a questi dati, vi sono questi ulteriori elementi, che attestano il sicuro e stretto collegamento fra i due enti:

  1. lo ZA., che ha costituito la Lega per una Civiltà Libera dalla Droga, e ne è rimasto sempre presidente, dando ai vari centri, come si è visto, direttive in campo economico e disponendo degli ingenti proventi della loro attività, apparteneva indubbiamente all'organizzazione ben prima che i centri Narconon e le due società di riferimento venissero costituite;

  2. anche i responsabili dei vari centri sono risultati aderenti all'istituto di Dianetica, come del resto hanno ammesso le imputate PR. e ME. (v. loro interrogatorio all'udienza rispettivamente dell'11.7.l989 a del 19.9.1989);

  3. il programma, adottato in tutti i centri Narconon, seguiva pedissequamente le direttive di Ron HUBBARD, prevedendo addirittura una terza fase, avente ad oggetto la lettura e l'apprendimento delle teorie dianetiche;

  4. vi sono, infine, una vera e propria marea di telefonate fra le sedi di Scientology e quella di via Agordat 32 (in cui spesso si trovava l'imputato CA.), che rendono inequivocabile gli strettissimi rapporti fra le due organizzazioni, per i continui contatti, lo scambio di informazioni, per un agire sostanzialmente comune, costituito fondamentalmente dal conseguimento di denaro (che forma appunto l'argomento principale di tali telefonate, i cui brogliacci già estremamente significativi sono contenuti nel faldone 25, e il cui tenore letterale è, invece, riportate nella perizia ai faldoni 102 ss).

E che il conseguimento di denaro fosse il vero scopo del loro comune agire, come si è appena detto, e più precisamente che i centri Narconon fossero il mezzo per convogliare ulteriori introiti alla Chiesa di Scientology è altresì dimostrato da una serie di elementi estremamente significativi.

Innanzi tutto coloro che entravano nei centri Narconon dovevano immediatamente pagare, come si è visto in precedenza, non solo le rette, ma anche i costosi libri di HUBBARD, che avrebbero dovuto servire soltanto nell'ultima fase del trattamento, a cui spesso i tossicodipendenti non riuscivano nemmeno ad arrivare, senza peraltro poter ottenere il rimborso di una simile inutile spesa.

Altrettanto inutile acquisto per un drogato, che doveva affrontare la difficile prova di superare le crisi di astinenza, può essere considerato l'apparecchio E-Meter (anch'esso venduto attraverso l'istituto di dianetica) con un prezzo che si aggirava fra i cinque e i sei milioni di lire, acquisto imposto in diversi casi, come hanno dichiarato ad esempio i testi F., DalP.. DeS., R., T.).

Di più; i centri Narconon costituivano una sicura base dalla quale spingere i tossicodipendenti, dopo un periodo di ricovero nel centro stesso, a seguire i ben più costosi corsi di dianetica, con la prospettazione che soltanto con questo ulteriore programma avrebbe potuto completarsi la disintossicazione, anche dal punto di vista psicologico, benché una simile prospettiva non fosse stata assolutamente nemmeno ventilata dagli operatori nel momento iniziale, in cui si faceva, invece, apparire il ricovero nel centro come il mezzo necessario e sufficiente per superare la tossicodipendenza.

È accaduto al M. e al B. [di cui ai capi 31) e 37)], così come è stato riferito nelle accorate deposizioni dei loro familiari, che nonostante questo ulteriore grande sforzo economico, non hanno visto alcun miglioramento nei loro figlioli. Riferiscono di aver dovuto fare questo percorso o di avere comunque ricevuto sollecitazioni in tale senso (non raccolte per mancanza di soldi) ad esempio i testi A., F., M., P., R., T., Z., A., DeN., come del resto risulta dalla disperata lettera di C.E., precedentemente citata (v. all.25).

E che questo metodo fosse abbastanza usuale è confermato dal teste V., il quale era stato in grado di notare che «molti frequentatori dei centri Narconon rimanevano, poi, coinvolti in Dianetica», circostanza ribadita dalla teste DeS., che - nella sua qualità di operatore - aveva potuto constatare che non era possibile entrare in centro Narconon «senza finire a Dianetica, a meno che non si avessero molti soldi».

Lo stretto legame fra i centri Narconon con le due società di riferimento e l'istituto di Dianetica è, infine, attestato anche da un rapporto redatto il 9.12.85, dalla sempre attiva Leda B. diretto agli uffici principali di Scientology e del SOCO, avente ad oggetto una lamentela da parte della SOCO che voleva una quota del ciclo, per l'importo di L. 13.000.000, di "auditing" e Accademia, «chiuso da NO. su un pubblic proveniente da un Narconon», minacciando che altrimenti avrebbero «boicottato Mil. Org [l'organizzazione di Milano] non facendo più arrivare public dai Narconon», segno evidente che questi centri costituivano una delle fonti per far giungere clienti all'organizzazione principale (v. all.26 del faldone 44).

In conclusione dunque si può ritenere dimostrato che i centri in questione, che svolgevano sostanzialmente una attività truffaldina, come si è in precedenza esposto, perseguendo i medesimi fini di Scientology e adottando pressoché gli stessi metodi, non erano altro che una sfaccettatura di quella più ampia e complessa attività illecita posta in essere dall'istituto di dianetica [N.B. questa conclusione dei giudici di merito è stata cassata dalla Suprema Corte - N.d.R.] e, a cui erano in grado di portare denaro e clienti proprio per quella competenza specifica in un campo, pieno sì di gente disposta a pagare per ricevere aiuto, ma a cui l'istituto di Dianetica prima e la chiesa di Scientology poi non erano in grado di attingere su vasta scala.


Note:

1. Per approfondimenti, si veda l'ampia sezione dedicata alla "Purificazione del Corpo".

2. Per approfondimenti si veda l'ampia sezione dedicata al processo milanese.

 
 
 
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