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Al ristorante accanto al nemico

Il diario di guerra della drammaturga serba più dura contro il regime, ma che non ha voluto lasciare la sua città. Di Biljana Srbljanovic.

Ogni giorno sul quotidiano La Repubblica, dal 28 Aprile 1999. Ripreso da Allarme Scientology, pagine a cura di Martini.

© Der Spiegel - La Repubblica.

BELGRADO (27 MAGGIO) - FORSE anche io, brancolando nel buio, ho trovato la mia lampada d'Aladino: sono riuscita a soddisfare il desiderio di scappare, anche se solo per un momento. All'improvviso mi si è aperta la possibilità di uscire dal mio paese per un breve periodo. Le mie commedie vivono la loro vita, lontano da me, e adesso in occasione delle loro rappresentazioni sono potuta andare all'estero.

Riesco a essere allegra preparando il viaggio. Non porto tante cose, nel caso in cui mi toccasse tornare a piedi. E poi questa guerra dura da talmente tanto che tutti i miei vestiti sono passati di moda. Il mio fidanzato, che ha una fortuna rara visto che è uno dei pochi uomini ad aver ottenuto un permesso temporaneo per lasciare il paese, dedica gli ultimi minuti a farsi tagliare i capelli. Glieli fanno "a secco", senza lavarli prima. Proprio mentre il barbiere è al lavoro, un'esplosione inaspettata scuote la città, in pieno giorno. Il barbiere si ferma per un attimo, non si sconvolge, però, alza solo le spalle e commenta: "Il mio unico dovere è tagliare i capelli". Poi continua il suo lavoro. Ha tutti e due i figli nell'esercito e da giorni non ne sa nulla, così una semplice minaccia alla sua vita non gli fa certo tremare la mano.

Passiamo la serata con amici, vogliamo vederli tutti, anche se non dovremmo stare via a lungo. È come per i bagagli: non si sa mai, chissà se potremo tornare a casa. Ci siamo riuniti in uno dei nostri ristoranti preferiti, uno di quelli che frequentavamo in tempo di pace. Non venivamo qui dall'inizio dei bombardamenti, perché non avevamo il coraggio di uscire di sera. Adesso, però, siamo tutti qui. Perché non si sa mai: forse questa è l'ultima volta. Il padrone del ristorante, un nostro vecchio amico, non ci ha dimenticato. Ci ha servito a tavola da solo con sua figlia ragazzina, perché tutti i camerieri sono al fronte. "Il mio unico dovere è servire gli ospiti", dice lui alzando le spalle, quando scatta l'allarme antiaereo.

Al tavola accanto al nostro, un grande gruppo di giornalisti americani rumorosi e brillanti festeggia qualcosa. Il prezzo del cibo sulla loro tavola è più alto del mio stipendio universitario di un anno. Le ragazze che stanno con loro sono serbe e ridono alle loro battute. Sono vestite come le stelline dello spettacolo, così si possono facilmente confondere con donne da marciapiede. Espongono i loro corpi e i loro sorrisi agli sguardi degli stranieri ricchi. E loro, così arroganti e con così poco gusto, non vedono quello che veramente rappresentano in questo momento. Mi viene la nausea quando questi rappresentanti dei grandi media cominciano a cantare a voce spiegata le sigle dei loro telegiornali. Loro, i nuovi colonizzatori, mercanti della nostra disgrazia, passano così le loro giornate, tra un reportage e l'altro sul nostro orrore. Con le ragazze che si offrono, le stesse che fino a ieri facevano compagnia ai gangster del regime e adesso hanno optato per i rappresentanti dell'Occidente, i primi messaggeri della nuova era coloniale.

Quando il gruppo di giornalisti stranieri chiede di far cantare una famosa canzone serba nazionalista, pensando che questo sia molto spiritoso, mi viene voglia di picchiarli. "Per colpa di canzoni come questa è scoppiata la guerra!", grido. Ma loro non mi sentono. Non mi guardano neppure.

Questo è il mio paese, il mio ristorante, qui vengo da anni, qui ho festeggiato il mio diploma, i miei amici il loro matrimonio, altri la nascita dei loro figli! È giusto che adesso, qui, sul mio territorio, gente estranea mi derubi di quello che è mio, del mio spazio, delle mie memorie?

Lo so che può suonare pesante, ma lo dirò lo stesso: l'altra sera ho capito per la prima volta come ci si può sentire quando qualcuno arriva nella tua terra per cacciarti via con violenza.

Un amico scherzando dice: "Forse gli devo gridare: Yankee go home!". Finalmente tutti ridiamo. Io mi calmo ed evito il confronto. Se sono venuti per colonizzarmi, almeno non gli consentirò di trasformarmi in uno dei tanti cliché della loro immagine del mondo. "Il mio unico dovere è soffrire", dico alzando le spalle, e continuo a mangiare le ciliegie.

 
 
 
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