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Navigare tra gli scogli

Tratto da La paura del barbari - Oltre lo scontro delle civiltà, di Tzvetan Todorov, Garzanti, 2009.

 
Nulla è bianco o nero e il bianco spesso è nero che si nasconde e il nero talvolta è bianco che si è lasciato vincere.
Non ero ancora sicuro se entrare nella polizia o nei terroristi, lo vedrò poi quando ci sarò.

Romain Gary, "La Vie devant soi"

Il fine non giustifica i mezzi e non ci insegna nemmeno quali siano quelli adatti per raggiungerlo. Ammettiamo per un momento che il presidente degli Stati Uniti abbia sinceramente voluto indebolire il terrorismo invadendo l'Iraq; siamo costretti a constatare che, contrariamente alle sue promesse, in seguito a questa invasione il terrorismo ha preso maggior vigore. Questo fallimento non rende il terrorismo più sostenibile, ma dimostra che la sua dannosità non giustifica l'uso di qualsiasi mezzo per combatterlo: alcune iniziative hanno un effetto contrario a quello atteso.

Che tutti gli esseri umani possano vivere con dignità, a prescindere dal sesso, dalla religione o dalla condizione sociale, è a sua volta un fine che merita di essere perseguito. Il problema è che non sappiamo quale sia il mezzo migliore per raggiungerlo. Ritroviamo qui la difficoltà, intravista nel primo capitolo, di sfuggire sia al dogmatismo sia al nichilismo, al giudizio etnocentrico e al relativismo radicale. Ciascuno si trova costretto a navigare tra due scogli (talvolta anche di più): l'uno consiste nel mostrarsi troppo tolleranti verso queste differenze culturali spesso piuttosto fastidiose, l'altro ci porta a combatterle con una tale intransigenza che ne risultano rafforzate. È quanto illustrano diversi episodi della vita pubblica recente, presentati come conflitti, o come "scontri", tra il modo di vivere degli europei e quello dei musulmani del mondo intero: l'assassinio di un cineasta e le minacce proferite contro la sua sceneggiatrice, nei Paesi Bassi; le caricature del profeta Maometto, pubblicate in Danimarca; il discorso del papa, che confronta cristianesimo e islam. Piuttosto che adottare delle regole generali a priori, ci dedicheremo all'analisi di ognuno di questi casi, per interrogarci in un secondo momento sull'evoluzione dell'islam oggi e sulle reazioni che suscita.


Assassinio ad Amsterdam

Il 2 novembre 2004, un uomo che percorre le vie di Amsterdam in bicicletta viene ucciso, poi sgozzato da un altro individuo, anche lui in bicicletta. La vittima si chiama Thee Van Gogh, commentatore radiofonico e televisivo, autore di numerosi film. Uno di questi è intitolato: Sottomissione. Prima parte; è stato realizzato secondo un progetto di Ayaan Hirsi Ali, una giovane donna di origini somale, allora membro del parlamento. Il film descrive le sevizie subite dalle donne nella società islamica. Ha suscitato l'indignazione di alcuni musulmani nei Paesi Bassi e uno di essi, Mohammed Bouyeri, giovane olandese di origini marocchine, è passato all'azione uccidendo Van Gogh e lasciando sul suo cadavere una lettera con minacce di morte per Hirsi Ali. Bouyeri è stato subito arrestato e condannato poi all'ergastolo.

Questo assassinio e tutto ciò che lo circonda scuotono l'opinione pubblica olandese, come si è potuto constatare in un sondaggio condotto alcune settimane dopo. Alla domanda su quale fosse il personaggio di maggior rilievo della loro storia, la maggioranza degli olandesi non ha risposto, come era facile prevedere, Erasmo o Spinoza, Rembrandt o Vermeer, ma Pim Fortuyn, un politico assassinate due anni prima, il cui programma si riduceva sostanzialmente all'espressione della sua xenofobia e del suo desiderio di vedere i musulmani abbandonare il paese (il libro s'intitola Contro l'islamizzazione della nostra cultura). L'atto di Beuyeri è dunque paragonato unicamente alle spirito dell'islam, ma non a quello, per esempio, dell'assassino di Fortuyn stesso (un olandese dalla nascita, di educazione cristiana, difensore dei diritti degli animali). Da allora, questo tema è di grande attualità nel dibattito pubblico dei Paesi Bassi: nel 2007, il capo di un nuovo partito di estrema destra, Geert Wilders, desideroso di recuperare lo spirito di Fortuyn, rivendica l'interdizione del Corano (un libro pericoloso come il Mein Kampf sostiene, di cui bisogna strappare metà delle pagine e gettarle) e annuncia che ha fatto, anche lui, un film sull'islam per rivelarne la natura pericolosa. L'ex ministro liberale dell'Interno, Rita Verdenc, ha fondato invece un altro partito nazionalista, chiamato "Fieri dei Paesi Bassi", il cui obiettivo principale è quello di rendere più rigida la politica sull'immigrazione. La campagna per una "jihad liberale", anti islamica, è stata avviata.

Perché uccidere chi ha realizzato il film e non l'autore della sceneggiatura, il vero ideatore? Perché la prima era un bersaglio molto più facile da colpire del secondo. Hirsi Ali, un tempo musulmana, divenuta critica nei confronti dell'islam, era regolarmente minacciata ma godeva, ormai da due anni, della protezione della polizia. Van Gogh aveva sempre rifiutato l'idea di una protezione simile e aveva continuato a spostarsi in bicicletta. Anche lui riceveva abitualmente minacce, ma non le prendeva sul serio. Nei servizi che presentava alla televisione e nei suoi dibattiti pubblici, aveva scelto di assumere il modo del provocatore: amava tenere dibattiti antisemiti («le stelle gialle copulavano nelle camere a gas»), islamofobi (i musulmani per lui non sono altro che «fottitori di capre»), oppure ostili ai poteri in carica. Il vero bersaglio dell'atto omicida di Beuyen era, lo si è presto saputo, Hirsi Ali, che aveva fatto della lotta contro l'islam il centro della sua attività pubblica.

Nel 2006, due anni dopo l'omicidio di Van Gogh, Hirsi Ali pubblica la sua autobiografia, intitolata La mia vita ribelle, un libro appassionato e appassionante, che permette di comprendere meglio l'evoluzione delle sue idee. Nata in Somalia in una famiglia musulmana, viene educata dalla madre e dalla nonna; sue padre, oppositore politico del governo, è rifugiato all'estero. L'educazione che riceve è quella dell'islam tradizionale e popolare, intrecciata a molte superstizioni. Contro l'opinione di suo padre, viene escissa; sua madre, credente convinta, la colpisce senza pietà quando non obbedisce rigidamente alle regole inculcate. Anche il suo insegnante di studi coranici la picchia molto violentemente per punire la sua mancanza di sottomissione, al punto da mettere in pericolo la sua vita.

Ormai adolescente, si entusiasma per le idee dei Fratelli musulmani. Questo movimento, all'origine dell'islamismo contemporaneo, rifiuta l'islam popolare e aspira a ritrovare, al di là delle concessioni successivamente fatte allo spinto del tempo e del luogo, la purezza originale della dottrina. È una sorta di controriforma e ricorda anche il ritorno evangelico nei protestanti contemporanei, quello dei born again. Ha conosciuto un incremento di popolarità negli anni Settanta del secolo scorso, grazie ai petrodollari che riceveva dai fondamentalisti del paesi del Golfo persico. In effetti è il consumo sfrenato di energia, caratteristico dei paesi occidentali, a rafforzare quelli che si dichiareranno nemici mortali dell'Occidente (è una variante della storia del mercante che non può impedirsi di vendere la corda con la quale sarà impiccato...).

I Fratelli musulmani che incontra Hirsi Ali non sono solamente più sinceri nella loro fede e più intelligenti dei predicatori tradizionali; sono individui onesti, integri e coraggiosi, combattono la corruzione dei governanti, aiutano i poveri e i sofferenti, convincono i giovani a lasciare la droga e il crimine. Convinti al tempo stesso che l'Occidente conduce una crociata contro di loro, vogliono impegnansi in questa guerra per vincerla e istituire un governo islamico mondiale. I nemici dell'islam devono morire: nel 1989, all'età di diciannove anni, Hirsi Ali non ha alcun dubbio che Salman Rushdie meriti la morte che la fatwa dell'ayatollah Khomeini raccomanda.

Tuttavia, altri dubbi l'assalgono. Ancora molto giovane, ha cominciato a leggere: inizialmente libri occidentali per bambini, poi romanzi d'amore all'acqua di rose che circolano tra i suoi compagni di classe in Kenya e in Etiopia, dove abita. Più tardi ancora, scopre i classici inglesi, russi o americani. La complessità del mondo rivelata dalla letteratura contrasta con lo schematismo del pensiero religioso che ha interiorizzato. La sua attrazione per la musica e la danza, la scoperta della propria sessualità contraddicono altrettanto l'insegnamento rigoroso dei Fratelli musulmani. È l'impossibilità di riconciliare questi due poli d'attrazione a condurla alla fine ad affermare la propria autonomia personale: vuole essere finanziariamente indipendente per poter decidere del corso che assumerà la sua vita, pensare senza condizionamenti, comportarsi come un individuo. Obbligata a sposarsi con un somalo, che risiede abitualmente in Canada, nel 1992 lascia il suo paese per raggiungerlo ma, facendo scalo in Germania, fugge nei Paesi Bassi, dove i rifugiati trovano ospitalità.

Grazie alla sua inclinazione per le lingue e al suo impegno, trova rapidamente lavoro come interprete e la sua integrazione nella società olandese avviene senza difficoltà. È affascinata dalla qualità della vita che scopre nel suo nuovo paese, dal rispetto delle norme comuni e delle scelte di ciascuno. Il confronto inevitabile tra le due società le fa pensare che non tutte le culture si equivalgono: senza dubbio, preferisce quella in cui si risolvono le liti con la negoziazione piuttosto che con una prova di forza, in cui si rispettano le scelte individuali in Luogo di punirle, in cui si coltiva le spirito critico piuttosto che la cieca sottomissione alla tradizione, in cui non si attaccano gli omosessuali e, forse più di tutto, in cui non si trattano le donne come esseri inferiori. Per questo motivo diventa anche lei critica nei confronti di alcune idee ben viste in Occidente sulla relatività dei valori e l'equivalenza delle culture; si dispiace anche per la chiusura di numerosi immigrati nella loro cultura d'origine, perché questo atteggiamento trasforma la società in una giustapposizione di cellule stagne, che non comunicano tra loro (un processo che lei definisce "multiculturalismo").

Fin qui il percorso di Hirsi Ali si può leggere come un'illustrazione eloquente degli ideali dell'illuminismo, perché attribuisce importanza all'universalità, ai diritti dell'individuo e allo spirito critico; ricorda quello di numerosi eroi ed eroine di romanzi europei del XIX secolo che scelgono di emanciparsi dalla pesante tutela della religione e della famiglia per condurre la vita come vogliono loro. Sono gli attacchi terroristici dell'11 settembre 2001 a farle varcare una nuova soglia. Impressionata dalla gravita dell'avvenimento, scopre di avere una missione: aprire gli occhi degli occidentali sulla dannosità dell'islam. Infatti è convinta, fin dal primo giorno, che gli attentati siano soltanto un effetto della religione musulmana. «È colpa dell'islam. Questo attacco è un atto di fede. È questo l'islam», dice ai suoi amici il 12 settembre. Tutto si svolge come se il fatto di condividere la medesima religione con gli autori degli attentati l'obbligasse a essere tra i primi a denunciarla. Questo sospetto di complicità involontaria e di colpevolezza deve essere sradicato. «La mia religione autorizzava, e forse incoraggiava, una simile carneficina? io, in quanto musulmana, trovavo questo attacco giustificato?». Già fortemente scossa nella sua fede, si dichiara ormai atea.

Per dare un fondamento più saldo al suo giudizio, si volge verso la letteratura dedicata all'islam e al terrorismo, ma trova sole elementi che la confortano nelle sue nuove idee. «Ho letto pagine e pagine di commenti dogmatici di una stupidaggine affliggente, scritte sostanzialmente da sedicenti arabizzanti», scrive. In compenso, i libri di Bernard Lewis e Samuel Huntington che stigmatizzano l'islam e corrispondono dunque alle sue convinzioni trovano indulgenza ai suoi occhi; ormai vede il mondo attraverso il prisma di una guerra di religioni. Nessun'altra causa ha guidato l'azione dei terroristi: «Solo la fede li animava. Né la frustrazione, né la povertà, né il colonialismo, né la Palestina: solo la fede. Volevano guadagnare un biglietto di sola andata per il paradiso». Il vero responsabile non è l'islamismo, ma l'islam; non Bin Laden, ma il profeta Maometto. L'islam è contrario alla ragione e ai diritti dell'uomo, è totalitario e manicheo. «L'atto disumano dei diciannove pirati dell'aria è stato il frutto di questo mostruoso sistema di controllo della vita umana».

Nel 2003 Hirsi Ali è eletta in parlamento, nelle liste del partito liberale. Si dedica in particolare alla lotta contro l'influenza pericolosa dell'islam. La maggior parte dei provvedimenti che cerca di introdurre ha l'obiettivo di proteggere le donne e stilare un elenco dei delitti d'onore, primo passo nel tentativo di sopprimerli. Altri riguardano alcuni costumi legati alla religione: bisogna rompere con il "multiculturalismo, cessare di sovvenzionare i cimiteri separati, i macelli halal o, come prevede la legge olandese, la costruzione delle moschee e il mantenimento delle scuole confessionali.. «Preponevo che i liberali si pronunciassero a favore della chiusura e dell'interdizione delle scuole musulmane». Più in generale, decide di lanciane un attacco frontale all'islam: «Maometto è un perverso e un tiranno», dichiara nel corso di un dibattito pubblico. È anche in questo spirito che, collaborando con Van Gogh, realizza il film Sottomissione. In esso appare il dorso di una donna che porta i segni delle frustate, sul quale sono scritti i versetti del Corano che giustificano la punizione delle donne: esse sono colpevoli di avere amato un uomo al di fuori del matrimonio, o di opporre resistenza al loro marito, e di "essersi lasciate" violentare.


Il combattimento anti islamico

Ciò che è discutibile nell'azione di Hirsi Ali non è l'obiettivo finale: il consenso si ottiene facilmente in Europa intorno a valori come la democrazia, l'autonomia dell'individuo, lo spirito critico, i diritti dell'uomo - e, più in particolare, quelli della donna. È la maniera da lei scelta per raggiungere l'obiettivo, in compenso, a essere meno convincente. La descrizione che fa del mondo, all'origine della sua azione, colpisce subito per il suo schematismo. Nel momento stesso in cui si verificano gli attentati, prima ancora di avere avuto il tempo o l'opportunità di studiare gli elementi della vicenda, decide che l'islam è l'unica causa di questa aggressione. Poi, scarta subito ogni informazione che va in un'altra direzione e accoglie solo ciò che la conferma nelle sue opinioni. L'idea di una motivazione politica, di una forma di vendetta destinata a cancellare l'umiliazione collettiva non colpisce la sua attenzione. I suoi lettori sono invitati ad accettare sulla parola questa responsabilità esclusiva dell'islam: bisogna darle credito in quanto musulmana da lungo tempo. Ma né la sincerità di un autore né le sofferenze che ha passato provano la verità della sua tesi.

Lo stesso vale per il suo giudizio globale sull'islam, accusato di essere la ragione dell'arretramento del mondo musulmano e della sofferenza delle donne che vivono in esso. I fondamentalisti contemporanei rifiutano di situare il Corano e l'azione del profeta Maometto nella storia, vogliono vedervi una rivelazione divina di valore eterno, che dunque deve essere applicata come tale al mondo contemporaneo. A modo suo, però, anche Hirsi Ali è reticente nell'adottare una prospettiva storica. Molti degli elementi della religione musulmana che oggi appaiono inaccettabili a un europeo non le appartengono in proprio, ma li deriva dalle tradizioni anteriori. Nel sue lavoro da pioniere, la grande antropologa Germaine Tillion ha dimostrato che la condizione inferiore delle donne è la conseguenza di un mutamente avvenuto all'epoca della rivoluzione neolitica, al momento della sedentarizzazione e della padronanza nell'uso delle tecniche agricole. Il suo libro L'harem e la famiglia (1966) mostra perché e come l'endogamia e la chiusura delle donne si siano imposti intorno al Mediterraneo. Rispetto agli usi in corso nelle civiltà più antiche, la dottrina islamica è piuttosto favorevole alle donne: nel caso che non avessero alcuna parte di eredità, insegna che bisogna riservarne loro una metà. Una simile prescrizione lascia senza parole, quando la si confronta con la nostra legislazione egualitaria; molto meno, se la si colloca nel suo contesto. Altrettante si può dire di numerose altre caratteristiche dell'islam.

Sulla base di questo sapere schematico e monolitico, che non evita di richiamare il manicheismo che condanna, Hirsi Ali avvia un'azione ugualmente problematica. All'inizio del XX secolo, Max Weber aveva formulato una distinzione, ripresa più volte da allora, tra etica della convinzione ed etica della responsabilità. La prima è quella del moralista. Consiste nel difendere ciò che si pensa, senza preoccuparsi degli effetti provocati dalle parole. La seconda è quella del politico, che adotta la prospettiva opposta: ciò che conta per lui non è la sincerità delle sue affermazioni, ma la loro efficacia. Gli interventi di Hirsi Ali si giustificano più come espressione dei suoi sentimenti, che non come azione politica; dà l'impressione di avere un conto personale da regolare con l'islam, come se volesse cancellare con la sua virulenza di oggi gli impegni che si era assunta in passato.

A seconda delle occasioni, i suoi interventi oscillano tra una posizione moderata, come quando incita i musulmani ad accettare la democrazia, e una posizione radicale, quando invita a sradicare l'islam, secondo lei causa di tutti i mali. Ormai è quest'ultima posizione a essere associata al nome e all'immagine di Hirsi Ali. Tuttavia, aspettarsi che tutti i musulmani del mondo, oggi più di un miliardo, si mettano sulle sue orme e abbraccino l'ateismo non è proprio una speranza realistica. Vedersi negati in ciò che si ritiene la propria identità collettiva è motivo di insofferenza e ostilità; si accetta di cambiare più volentieri quando si ha la duplice sensazione di restare fedeli a sé stessi e di essere rispettati dagli altri per quello che si è. Se rinunciare all'islam è la condizione necessaria per questo cambiamento, ma i credenti rifiutano di impegnarvisi, bisogna lanciare una nuova crociata per costringerli con la forza? Questo mezzo annullerebbe il fine perseguito: rendere questa popolazione più autonoma nella sua maniera di pensare, liberarla dalla tutela di un dogma venuto dall'esterno. Nell'Iraq di oggi vediamo gli esempi dei danni provocati da questo metodo: la libertà non può essere diffusa con la costrizione.

Attaccare frontalmente l'islam non è poi indispensabile, se si aspira a favorire la sua integrazione nella democrazia: è sufficiente difendere la separazione del potere teologico da quello politico che, come vedremo, non è estranea alla religione musulmana. Nell'interpretazione del messaggio religioso, tra tutte le affermazioni contenute nel Corano, ci si può basare su quelle compatibili con lo spirito democratico e modificare l'interpretazione delle altre nella stessa direzione. I musulmani possono vivere serenamente la loro fede in una democrazia, a patto di non ridurre l'islam all'islamismo. Eppure, è ciò che fanno sia gli islamisti (che pretendono di essere i portavoce della comunità intera), sia i loro critici virulenti (che in tal modo rendono loro un gran servizio). Nei suoi atti più spettacolari, Hirsi Ali ha scelto di privilegiare la provocazione, piuttosto che facilitare l'adattamento: non può davvero credere che queste dichiarazioni sulla perversità del Profeta diventino un argomento di dibattito con i credenti. Le reazioni ostili alle sue affermazioni sembrano a loro volta radicalizzare il sue comportamento, come se il suo obiettivo fosse la guerra civile. Per avviare il dibattito, per fare ascoltare i propri argomenti all'interlocutore, bisogna avere un quadro di riferimento in comune.

È necessario disprezzare il modello «multiculturali sta» a causa del fallimento dell'integrazione che colpisce alcuni gruppi di musulmani? La risposta è meno evidente di quanto non lasci intendere Hirsi Ali. Che tutti gli abitanti dei paesi occidentali non possiedano la stessa cultura è un dato di fatto, non un giudizio di valore. Gli Stati Uniti sono un paese in cui questa diversità è stata presa in considerazione; tuttavia, è anche quella in cui la popolazione proclama più fortemente i propri sentimenti patriottici (americani). La possibilità di praticare la propria cultura d'origine senza subire discriminazioni non impedisce la lealtà verso il paese che si abita. Le solidarietà di origine culturale, nazionale, ideologica non si confondono tra loro: «una medesima legge» non significa «una medesima cultura». La situazione dei paesi europei non è la stessa, ma ciò non discredita per questo il "multiculturalismo". Non esiste un'umanità universale: se gli esseri umani venissero privati di ogni cultura specifica, cesserebbero semplicemente di essere umani.

Gli interventi di Hirsi Ali sollevano tre questioni generali che bisogna sforzarsi di tenere distinte, perché suscitano risposte diverse. La prima è quella delle minacce che pesano sulla sua vita dopo il 2002, e dunque del diritto di criticare le religioni o di rifiutarle, inerente a ogni regime democratico. A tale proposito nessun dubbio: proferire minacce di morte o incitare alla violenza contro colui le cui opinioni non sono gradite è un crimine che va punito. Agli occhi della legge e della morale, la violenza fisica ha un peso maggiore di quella simbolica. La seconda questione riguarda la condizione delle donne nelle società tradizionali, e in particolare musulmane, e delle violenze che subiscono: la battaglia che bisogna condurre in questo caso è giusta e necessaria, anche se i mezzi scelti da Hirsi Ali non risultano sempre i più opportuni. La terza, infine, riguarda le spiegazioni globali, geopolitiche e storiche che dà agli avvenimenti recenti e le soluzioni radicali da lei esaltate: su queste piano è consentito ritenere le sue affermazioni poco convincenti.

Dal canto sue, Hirsi Ali racconta che aveva scelto per la sua azione tre precisi obiettivi. Il primo era di sensibilizzare l'opinione pubblica nei Paesi Bassi alla sofferenza delle donne musulmane, rinchiuse, percosse, obbligate a obbedire alle decisioni familiari e, talvolta, in caso di disobbedienza, anche condannate a morte. Si può dire che ha saputo attirare l'attenzione su queste sofferenze e ha richiamato la necessità di opporvisi; da questo punto di vista, la sua azione è stata efficace, anche se la battaglia non è ancora conclusa. In secondo luogo, voleva suscitare nella comunità musulmana un dibattito sulla riforma dell'islam. A questo proposito il suo intervento è stato un totale fallimento, perché è stata percepita come estranea e ostile alla religione, intenzionata a esortare non alla riforma, ma al rifiuto; il fatto è che non si discute con chi nega la nostra identità. In terzo luogo, Hirsi Ali interdeva incitare le donne musulmane a denunciare le loro sofferenze come inaccettabili. Su queste piano i risultati sono mitigati: alcune donne le sono state riconoscenti del suo parlare chiaro, ma molte altre musulmane olandesi non si sono riconosciute nei personaggi di Sottomissione.

Nel libro che dedica ai recenti avvenimenti dei Paesi Bassi, Assassinio a Amsterdam. I limiti della tolleranza e il caso di Theo Van Gogh, Ian Buruma descrive un servizio televisivo nel corso del quale, alla presenza di Hirsi Ali, è stato proiettato il film Sottomissione in un circolo per donne che hanno subito violenze. Una di esse le dice: «Lei ci insulta, tutto qui. La mia fede mi ha dato forza. È così che mi sono resa corto che la mia condizione non poteva più durare». Questa donna semplice sembra comprendere meglio degli atei militarti a che cosa serva la religione e come, a parte la descrizione fantastica del mondo o il precetto anacronistico che racchiude, possa fornire un sostegno esistenziale a quelli che soffrono. Nel suo libro, Hirsi Ali riconosce questa difficoltà di farsi capire da alcune donne che intende difendere, ma si limita a spiegarla con la loro lunga abitudine alla sottomissione. Anche se le cose erano in questi termini, l'invito a lasciare la propria religione rischia di non avere effetto: ancora una volta, non si può forzare una persona a essere libera. Ma Hirsi Ali non sembra preoccuparsene: percepisce la propria azione come un prolungamento della lotta anticlericale avviata a partire dall'illuminismo, una guerra della ragione contro i pregiudizi oppure, in accordo con il modello leninista, come il combattimento di un'avanguardia illuminata a beneficio delle masse incapaci di liberarsi da sole.

A rischio di farsi accettare come una riformista dai musulmani dei Paesi Bassi, Hirsi Ali ha trovato da allora orecchi attenti. Dal 2006 non è più deputato di questo paese, ma lavora per un think-tank di Washington, l'American Enterprise Institute, vicina a migliaia di neoconservatori che hanno portato il governo degli Stati Uniti alla guerra in Iraq, dunque arche al campo di Guantánamo e alla prigione di Abu Ghraib e che domami potrebbero guidarla a bombardare l'Iran. In questo quadro, le parole possono provocare azioni non meno mortali di quelle dei terroristi. Sarà il punto finale dell'evoluzione di questa donna fuori dell'ordinario? A leggere la sua autobiografia si può pensare di no: la personalità ricca e complessa che ne risulta non dovrebbe accontentarsi a lungo di questo semplice appello alla guerra contro l'islam.


Le caricature danesi

Il 30 settembre 2005 il più importante quotidiano danese "Jyllands-Posten" pubblica dodici vignette umoristiche sul tema del profeta Maometto. Dietro questa iniziativa è presente l'affare Van Gogh: ricordandosi del tragico destino del cineasta, i disegnatori del paese esitano ad avventurarsi su questo terreno pericoloso, mentre il giornale vorrebbe spingerli a vincere la paura. La reazione di alcuni portavoce della comunità musulmana a questa pubblicazione è forte ma, inizialmente, senza risposta. Essi allora si appellano ai media e alle autorità religiose e politiche dei paesi musulmani e le proteste prendono qui una piega terribile: a fine gennaio 2006 le manifestazioni antidanesi si moltiplicano, al governo danese viere richiesto di presentare delle scuse. Nel corso di questi avvenimenti, vengono uccise diverse persone, in Afghanistan, in Libia, in Nigeria e altrove; secondo un conteggio, i morti sono stati 139. Il governo danese tenta di sedare gli animi, altri paesi europei intervengono nella stessa direzione, come molte personalità musulmane; la controversia si placa nel corso del mese di febbraio. Lascia comunque delle tracce durature: ormai si farà riferimento a essa ogni volta che il posto dell'islam in Europa viene messo in discussione. Esanimiamo i fatti più da vicino.

In primo luogo bisogna ricordare il cotesto nazionale nel quale si svolge questa vicenda. Fino a poco tempo fa, la Danimarca ha avuto solo pochissimi stranieri sul proprio territorio. I primi gruppi che arrivano negli anni Settanta del secolo scorso, generalmente fanno ritorno in patria dope aver finito il lavoro; come in Germania, sono dei "lavoratori su invito". Il leggero aumento del loro numero fa nascere dei partiti di estrema destra che descrivono gli immigrati come gli artefici di una nuova occupazione (dopo quella subita dai tedeschi durante la seconda guerra mondiale) e come una miraccia per i "valori danesi". In effetti, come altrove in Europa, dopo la morte del comunismo il programma dell'estrema destra si riduce a due scelte nazionalistiche: rimandare a casa gli immigrati, opporsi all'integrazione europea. Gli immigrati musulmani sono particolarmente visibili, suscitano perciò il rifiuto più forte. L'amministrazione ha creato la categoria speciale di "discendenti" per poter classificare i figli degli immigrati, anche quando sono nati sul suolo danese. La battaglia contro il "multiculturalismo" è diventata uno dei grandi temi del dibattito pubblico. D'altro canto, la Danimarca ha una religione ufficiale, il protestantesimo luterano, i cui religiosi hanno Lo statuto di funzionari, inoltre le lezioni di cristianesimo sono obbligatarie nella scuola pubblica.

Nel 2001, alle elezioni legislative si presenta un partito fondato acumi anni prima da una scissione nell'estrema destra,il partito del Popolo danese, guidato da Pia Kjaersgaard, un'infermiera che parla senza mezzi termini. La sua propaganda elettorale presenta le bionde danesi minacciate dalle brute nere del Sud, responsabili di violenze di massa, di matrimoni forzati e di gang di strada. Kjaersgaard predica "la Danimarca ai danesi" l'islam è un cancro, dice ai suoi compatrioti, un'organizzazione terrorista, i suoi fedeli attendono l'occasione per assassinarci. Inoltre dichiara: «Esiste una sola civiltà, la nostra», allineandosi con le posizioni di Oriana Fallaci, più che di Samuel Huntington. Un altro leader del partito afferma: «Esistono molti punti in comune tra Hitler e l'islam». Il rappresentante di un altro partito di estrema destra chiede: «Sapete la differenza tra un ratto e un musulmano? Il ratto non riceve aiuti sociali». Queste affermazioni pubbliche lasciano il segno negli animi.

Le elezioni, tenute poco dopo l'11 settembre 2001, portano al potere una coalizione formata da liberali e conservatori, sostenuta dal partito del Popolo danese. Una delle urgenze del nuovo parlamento è di adottare una legge concepita per scoraggiare chiunque intenda immigrare. Le condizioni del ricongiungimento familiare sono inasprite: perché uno straniero possa venire a vivere con il suo congiunto danese, deve dimostrare un legame più forte in Danimarca che nel paese d'origine e i due devono avere almeno ventiquattro anni. Il ministro dell'Interno, Karen Jespersen, da tempo una simpatizzante di estrema sinistra, propone che coloro che richiedono asilo e risultino delinquenti vengano internati su un'isola deserta. Risultato, in quattro anni il numero dei permessi di soggiorno a titolo di ricongiungimento familiare diminuisce drasticamente.

È in questo contesto, in cui la condanna dell'islam serve spesso da facciata al rifiuto degli immigrati, che interviene la vicenda delle caricature. Un autore non trova chi voglia illustrare il libro che ha scritto sul profeta Maometto e se me lamenta pubblicamente; Flemming Rose, il redattore delle pagine culturali di "Jyllands-Posten", decide di indagare su altri casi di quella che egli definisce autocensura e ordina le vignette. La loro pubblicazione è accompagnata da un testo nel quale il giornalista spiega che la modernità si confonde con il cristianesimo, mentre l'islam incarna le tenebre, la guerra delle civiltà è inevitabile e bisogna vincere le proprie paure, impegnandosi in una guerra del bene contro il male. In questo caso, si tratta di dimostrare il proprio attaccamento alla libertà d'espressione, il primo dei "valori danesi", il quale, secondo lui, presuppone che ciascuno sia «pronto a farsi disprezzare, farsi prendere in giro, ridicolizzare», un atteggiamento che raccomanda arche ai musulmani. L'obiettivo immediate è dimostrare che si può parlare male dell'islam senza avere paura di subire il destino di Van Gogh. Il redattore capo del giornale presenta il tutto con un editoriale intitolato "La minaccia venuta dalle tenebre", nel quale deplora la «sensibilità esacerbata» dei musulmani.

Le vignette in sé non sono particolarmente aggressive. Cinque evitano di rispondere alla commessa e non rappresentano Maometto. Altre due sono semplici immagini che non suggeriscono alcun giudizio. Le ultime cinque possono essere definite caricature: una raffigura il Profeta con le corna, altre tre mettono in ridicolo gli atteggiamenti musulmani nei confronti delle donne, l'ultima, la più citata, mostra Maometto con una bomba al posto del turbante. Ciò che dà loro un significato particolare è il quadro nel quale sono pubblicate: queste vignette non illustrano il diritto di esprimersi liberamente, ma di attaccare l'islam ridicolizzando il Profeta, benché sia considerate dai musulmani un personaggio sacro.

Lasciamo perdere la strana concezione della libertà d'espressione difesa dal redattore del giornale: egli la riduce a un diritto a deridere e a prendere in giro (a questo prezzo, non sarebbe più Spinoza l'incarnazione esemplare di questa virtù, ma trasmissioni televisive come, in Francia, Les Guignols de l'info). Partiamo invece dallo scopo che si propone: difendere la libertà di espressione criticando e ridicolizzando l'islam. Si pongono due questioni. La prima riguarda il contenuto del bersaglio: perché scegliere queste esempio di "censura" tra tutti quelli possibili? La scelta non può essere dovuta al caso. Se il redattore avesse chiesto di prendere in giro dei neri o delle donne grasse, la risposta dei disegnatori sarebbe stata ugualmente un esempio di libertà d'espressione perché scherzi simili in generale sono giudicati inopportuni. Se non l'ha fatto, se è partito dal libro che nessuno vuole illustrare, il motivo è che aveva anche, o soprattutto, un altro obiettivo: mettere in dubbie la legittimità dei precetti islamici e, in fin dei conti, dimostrare che i musulmani some intolleranti.

La seconda questione riguarda il posto che occupa questo tema in una società in cui si svolge il fatto. In una popolazione così permeabile ai discorsi e ai valori xenofobi e contro gli immigrati come la società danese del momento, non si suscita stupore in nessuno insinuando che l'islam sia intrinsecamente misogino e terrorista. Si rafforzano invece i sentimenti della maggioranza, che piuttosto di piegarsi ai dogmi "multiculturalisti" del politicamente corretto, vede finalmente espresso liberamente il sue pensiero. Se veramente l'intenzione fosse stata quella di dimostrare che la libertà di espressione è valida di per sé, a prescindere dal contenuto espresso, si sarebbero dovute scegliere affermazioni che andassero contro l'opinione comune e che trasgredissero i divieti ai quali aderisce la maggior parte dei cittadini, come, per esempio, temere discersi antisemiti. Se non viene in mente a nessuno l'idea di difendere la libertà di espressione in questo modo, la ragione è che, contrariamente a ciò che si sente in alcune arringhe, quella libertà non è la sola, né la più importante tra i valori di una democrazia liberale; vi compare, certo, ma accanto ad altri, con i quali deve trovare un accordo. Tutti accettano tacitamente questa gerarchia e nessuno parla di censura quando si vieta l'incitamento all'odio razziale.

La libertà d'espressione non è un valore ordinario, perché consente di affrancarsi da ogni altro valore; è un'esigenza di tolleranza integrale (nulla di ciò che si dice può essere dichiarato intollerabile), un relativismo generalizzato di tutti i valori. Reclamo il diritto di difendere qualunque opinione e di denigrare qualunque ideale. Ciascuna società ha bisogno di un fondamento di valori condivisi; sostituirli tutti con «ho il diritto di dire tutto ciò che voglio» non è sufficiente per fondare una vita in comune. Con ogni evidenza, il diritto di sottrarsi a certe regole non può essere l'unica regola che organizza la vita di una collettività. «È vietato vietare» è una bella frase, ma nessuna società al mondo vi si conforma.

Il fondamento della democrazia liberale è il potere del popolo e la protezione dell'individuo. Accanto alla libertà di scelta che conferisce agli individui che la compongono, lo stato ha anche altri obiettivi: proteggere la loro vita, la lore integrità fisica e i loro beni, combattere le discriminazioni, operare in vista della giustizia, della pace e del benessere comuni, difendere la dignità di tutti i cittadini. L'individuo non cessa di appartenere alla società solo perché ha dei diritti propri. I suoi atti hanno delle conseguenze per gli altri membri del gruppo, la parola non è solo espressione del pensiero, è al tempo stesso azione e ha un suo pesto nello spazio sociale. Più esattamente, alcune parole "performative" sono in sé stesse delle azioni autonome, come calunniare e diffamare: dire, in questo caso, equivale a fare. Altre, poi, sono incitamenti ad azioni di vario genere: ordini, richiami, suppliche, che impegnano la responsabilità di colui che le proferisce. Tra avere il diritto di compiere un atto e compierlo esiste una distanza che si percorre temendo conto delle possibili conseguenze di questo atto nel contesto attuale. A queste titolo, la parola o le altre forme di espressione ne subiscono delle restrizioni, imposte in ragione dei valori ai quali la società aderisce. Così, la maggior parte dei paesi europei dispone di leggi antirazziali, e di leggi che puniscono la diffamazione dei gruppi, al di là delle loro caratteristiche, e perfino delle leggi contro le bestemmie. Anche in Danimarca, ma riguardano, effettivamente, il solo culto luterano...

I governi di questi paesi non esitano a ricorrere a tali leggi. Nel momento stesso in cui la vicenda delle caricature dilaga, nel febbraio 2006, le storico negazionista inglese David Irving è condannato in Austria a tre anni di carcere duro per avere contestato l'esistenza delle camere a gas di Auschwitz. Sempre nello stesso periodo i vescovi francesi riescono a far vietare dalla giustizia una pubblicità ripresa dalla Cena di Leonardo da Vinci e giudicata offensiva per i sentimenti dei cristiani, perché mette in ridicolo l'immagine di Cristo. Ancora nelle stesso mese, il responsabile dell'Unione cristiana sociale tedesca Edmund Stoiber chiede che venga tolto dalle sale il film turco La valle dei lupi, definendolo un «film di odio, razzista e antioccidentale». Nel giugno dello stesse anno il ministro francese dell'Interno Nicolas Sarkozy avvia un processo davanti alla Corte di cassazione contro un gruppo rap, le cui affermazioni sono percepite come un attacco all'onore e una diffamazione della polizia nazionale. Nella stessa Danimarca, si decide di sospendere per tre mesi Radio Holger che nel luglio 2005 incitava a «sterminare tutti i musulmani fanatici, vale a dire uccidere buona parte degli immigranti musulmani». Esistono, perciò, dei limiti alla libertà d'espressione che si decide di non superare.

Tra la sfera legale, che si basa su divieti, e la sfera personale, dove c'è un'ampia libertà, s'inserisce una sfera pubblica e sociale, impregnata di valori. L'ordine legale non è costituito solo dalle leggi, ma anche dai regolamenti e perfino dalle istituzioni, nella misura in cui sono come una sedimentazione delle leggi e delle regole. Il grande principio a cui obbedisce è quello dell'uguaglianza. La vita sociale, di per sé, si svolge in questo quadro legale, senza ridursi a esso; e il suo principio non è affatto l'uguaglianza (chi vorrebbe vivere in una società in cui tutti fossero trattati allo stesso modo?), ma il riconoscimento che si ottiene mostrandosi più brillanti, o più affettuosi, o più leali, o più coraggiosi degli altri, in breve mostrandosi superiori e non uguali; ciò che si chiede non è l'uguaglianza, ma la distinzione, la gratificazione, la ricompensa speciale. Nemmeno questo spazio sociale è omogeneo: l'immagine non è il verbo, la pubblicità gigante non è l'illustrazione presente in un libro, la caricatura su un quotidiano non è il quadro appeso in un'esposizione. Uno slogan lanciato da una tribuna politica non risponde alle stesse esigenze di una tesi universitaria. Esiste anche una differenza tra criticare un'ideologia generalmente condivisa (è un atto di coraggio) o un gruppo emarginato e discriminato (e un atto odioso), e prendere in giro sé stessi o gli altri.

Il consenso sociale che regola questa sfera pubblica limita a sua volta la libertà d'espressione. Così, si evita di prendere in giro pubblicamente persone obese, anche se nessuna legge lo vieta, e ci si preoccupa, nel cinema contemporaneo, di non rappresentare tutti i neri come violentatori o gli ebrei come banchieri disonesti. È anche per questo motivo che, benché non siano vietati dalla legge, alcuni scritti che trasgrediscono il consenso stabilito faticano a trovare un editore: tutti temono il "linciaggio mediatico". Questa precauzione non sembra riguardare, tuttavia, gli arabi musulmani. Spinta all'estremo, conduce al "politicamente corretto" interamente abbandonata, lascia il posto a ciò che si potrebbe definire il politicamente abietto, presentato come se si trattasse di "parlare apertamente". Se la ricerca della verità e la manifestazione delle opinioni sono libertà preziose, non sono le sole a governare la nostra esistenza.

Riassumendo, le caricature dell'islam non illustrano bene il principio della libertà d'espressione; e questo stesso principio, nella vita sociale, non ha la forza di assoluto che gli attribuiscono i suoi difensori. La giustificazione - della pubblicazione di "Jyllands-Posten" con la sola difesa di questo principio non sembra sufficiente. Non sembra convincente nemmeno l'idea secondo cui si tratterebbe di aiutare le masse musulmane a uscire dalla loro ignoranza e dalla passiva sottomissione ai dogmi: la stigmatizzazione pubblica raramente è un utile strumento pedagogico. Ma allora, quali ulteriori ragioni hanno motivato questa pubblicazione?

Non bisogna trascurare, in primo luogo, i benefici che si ottengono assumendo il ruolo di prode cavaliere difensore della libertà, di apostolo del bene: fanno parte del fascino del manicheismo. Si prova una certa soddisfazione nel sentirsi capaci di raddrizzare i torti, animati da ciò che in inglese si definisce rigtheous indignation. Abbiamo visto che i redattori del giornale si attribuivano tranquillamente la gratificazione di essere i rappresentanti del bene in una lotta coraggiosa contro le forze del male, i Lumi contro le Tenebre. Ma non si può ignorare un'altra spiegazione possibile, suggerita già il giorno successivo alla pubblicazione. Secondo uno dei dodici disegnatori, «il giornale fin dall'inizio voleva soltanto provocare»; è questo il giudizio formulato anche dagli altri principali quotidiani danesi.

In effetti, si può avere l'impressione che i giornalisti siano convinti di una cosa: a differenza di "noi", che siamo forniti delle migliori virtù, i musulmani sono incapaci di adottare un atteggiamento critico verso i loro dogmi religiosi; per dimostrarlo, basta scegliere un argomento polemico. Se lo scopo dei redattori fosse stato quello di provocare una reazione violenta da parte di alcuni musulmani e, di conseguenza, un rifiuto nel paese della sua minoranza musulmana, già esposta agli attacchi del partito di estrema destra che appoggiava il governo, non avrebbero agito diversamente. Il risultato, voluto o meno, è stato di esacerbare le tensioni intorno agli immigrati, non la loro conversione ai "valori danesi". A causa di ciò, si può trovare discutibile la formulazione stessa del dilemma a cui si trovano messi di fronte i partecipati al dibattito pubblico in Danimarca. Piuttosto che difendere il bene e la libertà o cedere all'autocensura, si potrebbe enunciare così la vera alternativa: contribuire a inasprire le relazioni tra gruppi in seno alla società o facilitarne l'integrazione reciproca. Ancora una volta, si constata che sarebbe più adatta all'azione politica l'etica della responsabilità e non l'etica della convinzione.


Le reazioni

Le reazioni alla pubblicazione delle vignette giungono inizialmente da alcuni imam residenti in Danimarca, che vedono in esse un'occasione per risvegliare la sensibilità religiosa di una popolazione d'origine musulmana e per attirarla verso le moschee, dove predicano un islam fondamentalista. In primo luogo si rivolgono al giornale per ottenere delle scuse; davanti al suo rifiuto, organizzano una manifestazione nelle vie di Copenaghen e, con una petizione firmata da numerosi musulmani, chiedono al Primo ministro di intervenire. I disegnatori ricevono minacce di morte, di cui la polizia identifica e arresta rapidamente l'autore, un ragazzo di diciassette anni, considerato "psicologicamente instabile". Gli imam, allora, decidono di dare maggiore risonanza alla loro azione e si rivolgono all'Organizzazione della conferenza islamica (OCI), un organismo che raggruppa cinquantasette stati, e agli ambasciatori dei paesi musulmani insediati a Copenaghen. Così facendo, considerano che le istanze religiose internazionali o i paesi musulmani abbiano voce in capitolo sul modo in cui vengono gestiti gli affari pubblici all'interno della Danimarca. A metà ottobre, l'OCI e undici degli ambasciatori indirizzano al Primo ministro danese alcune lettere in cui esprimono la loro inquietudine; gli ambasciatori, inoltre, chiedono di essere ricevuti.

Il Primo ministro oppone un rifiuto categorico a quest'ultima richiesta, invocando il principio di libertà d'espressione e ricordando che «Il governo danese non ha modo di influire sulla stampa». È una risposta, a dire ili vero, un po' striminzita. L'azione di un uomo politico non si limita all'applicazione della legge, ha un margine di manovra molto maggiore e nulla lo obbliga a ignorare gli altri obiettivi della sua azione, come la vita pacifica e armoniosa delle diverse componenti della sua società. Quando un numero significativo di individui dice di sentirsi offeso, egli può riceverli, mostrare loro rispetto e sollecitudine, spiegando perché non vuole entrare nel merito della libertà di stampa e illustrando la forma legale che potrebbe assumere la loro protesta.

A questo proposito, bisogna distinguere tra le possibili ragioni della protesta: non raffigurare il Profeta è un'esigenza puramente teologica (aniconica), di cui i media europei non devono tenere conto; in compenso, raffigurare il Profeta con una bomba al posto del turbante può offendere, non la teologia, ma i musulmani stessi, perché in questo modo si lascia intendere che siano tutti dei terroristi o che la pratica del terrore derivi dall'islam (forse è la convinzione di Bin Laden, ma certo non quella dei comuni credenti). Una diversa reazione del governo, pur senza venir meno ai principi, avrebbe permesso di sedare le tensioni tra le comunità locali. Infine, alcuni mesi più tardi in Danimarca si leveranno delle voci non musulmane per lamentare questo mancato intervento. Ventidue anziani ambasciatori danesi comunicano il loro disappunto; il commissario europeo alla Giustizia, Franco Frattini, esprime la sua personale condanna sulla pubblicazione delle vignette. È solo negli auguri formulati per l'anno nuovo che il Primo ministro presenta una posizione più conciliante. Ma ormai sono trascorsi due mesi e mezzo e il danno è fatto.

Gli imam che non sono stati ricevuti decidono, nel frattempo, di rivolgersi direttamente ai musulmani dei loro rispettivi paesi d'origine. Essi preparano un dossier contenente le dodici vignette originali, alle quali ne aggiungono nove, pubblicate su un altro giornale, e tre, particolarmente aggressive, prelevate da Internet. Agli inizi di dicembre si recano in Egitto, in Arabia Saudita, in Libano, in Siria e altrove; ovunque si lamentano con le autorità religiose, ma anche con ministri e altre personalità ufficiali. In ogni paese la loro richiesta di aiuto sarà strumentalizzata a seconda dei bisogni politici del momento. In Egitto, per esempio, i Fratelli musulmani rischiano di prendere numerosi voti alle elezioni; il governo vede nella richiesta degli imam una buona occasione per dimostrare alla popolazione il proprio impegno nel vigilare sulla protezione dell'islam. In Siria, dove si sospetta che il governo interferisca pesantemente nella vita politica libanese, la vicenda arriva a proposito per distogliere l'attenzione. In Palestina, al-Fatah vede in essa il mezzo per ergersi a difensore delle credenze popolani e lottare così contro Hamas. La delegazione degli imam stabilisce anche un contatto con le reti televisive; i milioni di telespettatori di al-Jazeera vengono a conoscenza di una versione fortemente ideologizzata della storia delle vignette.

Nulla sembra più in grado di arrestare il movimento di protesta nei paesi musulmani, rafforzato da una nuova pubblicazione delle vignette, questa volta in una piccola rivista norvegese. Orchestrato all'inizio dai governi e dalle istituzioni religiose, dà origine a manifestazioni di strada; si organizza un boicottaggio dei prodotti danesi, minacce di monte fioccano ovunque. All'inizio di febbraio il movimento comincia a sfuggire di mano alle autorità, che tuttavia non fanno nulla per fermarlo. In diversi paesi vengono attaccate le ambasciate danesi, in alcuni casi incendiate. La violenza è sovrana, i morti e i feriti non si contano.

La condotta dei musulmani implicati in queste reazioni, evidentemente, non è esente da critiche. In primo luogo è inappropriato sollecitare gli ambasciatori stranieri o, peggio ancora, i ministri di paesi stranieri, perché intervengano negli affari interni danesi: è come disprezzare la sovranità di ogni paese e nello stesso tempo escludersi dalla comunità che si cerca di riformare. L'appello alle istanze religiose straniere e alle stazioni televisive è un ricatto: se non accogliete le nostre richieste, sembrano insinuare gli imam, le folle scatenate potrebbero crearvi grossi problemi; bruceremo le vostre ambasciate, boicotteremo i vostri prodotti. Gli imam, perciò, non mostrano alcun rispetto per le cariche del paese che abitano, proprio mentre chiedono al suo governo di essere trattati con riguardo. La mescolanza, nel dossier che presentano nei paesi musulmani, delle dodici vignette originali con altre, che provengono da fonti diverse, è un segno evidente del loro desiderio di ottenere la vittoria, non di far regnare la giustizia.

I giornalisti della stampa scritta e della televisione mostrano la versione dei fatti che più conviene loro; sfumature e complessità raramente sono la prima preoccupazione che hanno. I governi di questi paesi, a loro volta, non sono ignari delle manovre che conducono fingendo un'indignazione virtuosa nei confronti del governo danese, in realtà si rivolgono alla propria popolazione. Infine, la violenza delle folle nelle strade è tanto più paradossale quanto si crede che sementisca la violenza islamica suggerita dalle vignette: al posto dell'unica bomba che sostituisce il turbante del Profeta i manifestanti ne brandiscono cento, come se in fondo provassero attaccamento per l'immagine che giudicano offensiva! Conseguenza paradossale: gli attacchi mossi all'immagine dell'islam dai suoi zelanti partigiani sono più gravi ancora di quelli inflitti dai suoi detrattori...

È chiaro che i manipolatori di queste manifestazioni, personalità politiche o religiose, vi trovano un tornaconto. rafforzano il prestigio di cui godono presso i credenti presentandosi come difensori intransigenti (anch'essi sono apostoli del bene!) e nello stesso tempo distolgono la loro attenzione da ciò che va male, individuando un comodo capro espiatorio. L'esacerbarsi del conflitto e l'impressione di un inevitabile scontro delle civiltà rappresentano, se vogliamo, una manna dal cielo, perché consentono loro di annullare la frontiera tra islam e fondamentalismo islamico. I propagandisti di al-Qaeda ne approfittano per arricchire il tessuto di simpatizzanti, di cui hanno bisogno per fomentare nuovi atti terroristici.

Nello stesso tempo non bisogna dare troppa importanza a questi leader. Se migliaia di persone sono pronte ad ascoltarli, non è solo, e nemmeno principalmente, a causa delle vignette danesi, ma perché vedono in esse L'occasione di esprimere il proprio risentimento contro quelli che considerano responsabili delle loro sventure, le arroganti potenze occidentali. L'umiliazione che ne rappresenta il vero punto di partenza attinge a più fonti: la presenza di eserciti occidentali sul territorio di paesi musulmani come l'Afghanistan e l'Iran (incluso un contingente danese), le ingiustizie inflitte ai palestinesi, le immagini di tortura nei campi e nelle prigioni. Questi avvenimenti accadono in un quadro ben preciso, quello degli effetti negativi dell'urbanizzazione e della mondializzazione sull'identità tradizionale, a loro volta presentati da quei governi come provocati dall'Occidente. Ricordiamo, infine, anche l'esistenza di una certa opulenza occidentale sugli schermi televisivi, quando l'accesso ai paesi in cui si mostra e dunque a questa ricchezza rimane vietato. Dal canto loro, i pomposi discorsi sui diritti dell'uomo che ascoltano gli abitanti di queste terre del risentimento, formulati da coloro che essi ritengono responsabili della loro afflizione, non portano a nulla. Nella pubblicazione delle vignette essi non vedono altro che un incitamento all'odio. Tutti questi ingredienti messi insieme formano una miscela esplosiva che deve il suo vocabolario alla religione, ma le cui cause sono politiche.

A partire da febbraio 2006, la stampa occidentale s'impegna nella difesa della libertà d'espressione; i governi europei e le organizzazioni internazionali intervengono presso dirigenti dei paesi musulmani per esortarli a impedire le violenze; questi, già preoccupati di vedersi sfuggire di mano il movimento, lo fermano rapidamente. Alcuni argomenti polemici saranno ancora sollevati nei paesi europei, che vorrebbero si verificasse di nuovo il teorema stabilito al momento della vicenda: per dimostrare che i musulmani sono degli estremisti è sufficiente trattare senza riguardo il loro Profeta e lo diventeranno. Un gruppuscolo danese diffonde un'immagine di Maometto sul dromedario, mentre beve una birra. Un altro gruppo annuncia l'intenzione di bruciare pubblicamente il Corano. Nel 2007 un giornalista svedese pubblica una vignetta del Profeta con il corpo di un cane; individui che si rifanno ad al-Qaeda lanciano immediatamente delle minacce contro i giornalisti. Durante la campagna elettorale del 2007, il partito del Popolo danese mette sui suoi manifesti un ritratto di Maometto con questo slogan: «La libertà di espressione è danese, la censura no»; dopo le elezioni, questo partito rimane legato al governo.

Possiamo ancora ricordare due episodi legati a questo tema. Nell'autunno 2006 un professore francese, Robert Redeker, ha pubblicato su "Le Figaro" una diatriba antimusulmana, in seguito alla quale ha ricevuto delle minacce di morte ed è stato costretto a richiedere la protezione dello stato. Minacciare qualcuno di monte per le sue idee, ancora una volta, è un crimine che va punito. Riaffermato questo principio, è possibile anche non approvare la pubblicazione, su un importante giornale parigino, di questo articolo odioso e acerbo, nel quale si descrive la religione musulmana come animata soltanto da odio e violenza, passioni che si crede siano assenti dal "mondo libero". Che cos'altro poteva dare oltre a una (pericolosa) notorietà al suo autore e la prova che, se si presentano i musulmani come «una folla isterica che se la intende con la barbarie», se ne troverà sempre almeno uno di essi che vorrà punire l'autore della dichiarazione? Non è l'illustrazione, eloquente di questo atteggiamento che, fingendo di criticare una religione (la rivendicazione di un "diritto alla bestemmia", posta sotto la protezione di Voltaire), permette di stigmatizzane i suoi fedeli? La responsabile della stessa rubrica su "Le Monde" ha commentato la tribuna di Redeker con queste parole: «Non l'avremmo certo pubblicata. Le pagine "Dibattiti" non sono un luogo di vociferazioni, ma di analisi». Ai giorni nostri in Europa i musulmani sono la principale comunità che ci si diverte a provocare così impunemente in organi largamente diffusi e queste provocazioni si aggiungono alle vessazioni quotidiane subite dagli immigrati e dai loro discendenti, il cui aspetto fisico o nome tradiscono un'origine straniera.

A questo proposito, si può fare un confronto con un altro gruppo etnico tradizionalmente discriminato in Europa, quello degli ebrei. Il loro tragico destino nel corso della seconda guerra mondiale ha creato nei paesi europei un consenso grazie al quale ogni manifestazione di antisemitismo è diventata intollerabile. I negazionisti sono regolarmente trascinati in tribunale e condannati, se lavorano nel pubblico rischiano anche di perdere il posto. I pochi personaggi che si permettono osservazioni sgradevoli sugli ebrei in pubblico sono immediatamente e unanimemente stigmatizzati. I gruppuscoli neonazisti o satanici che hanno profanato delle tombe di ebrei (e del resto anche di musulmani) sono stati pesantemente condannati, ogni qualvolta è stato possibile arrestarli. È vero che, in alcuni quartieri di periferia, gli adolescenti di origine maghrebina, identificandosi in maniera fantasiosa con la popolazione palestinese, sono potuti passare dall'ostilità nei confronti della politica israeliana a sentimenti antisemiti; ma la loro espressione nello spazio pubblico è sistematicamente repressa. Questa vigilanza non si ferma qui e crea un clima negativo per il dibattito pubblico, nel quale ogni critica puntuale del governo israeliano è considerata una manifestazione di antisemitismo; prova ne sia il recente processo intentato contro Edgar Monin, Danièle Sallenave e Sami Nair, autori di una tribuna libera apparsa su "Le Monde".

Nel febbraio 2006 è il giornale satirico "Charlie-Hebdo" a pubblicare le vignette controverse e alcune altre. La tiratura dell'edizione ne sarà decuplicata: passa da una media di 60.000 esemplari a circa 600.000. Due organizzazioni musulmane lo citano in tribunale; la vicenda finisce davanti ai giudici nel febbraio 2007. Il redattore capo dichiara al processo che ha voluto difendere la libertà di stampa e lottare contro l'integralismo, inoltre si considera l'incarnazione dei Lumi che dissipano le Tenebre, al fianco di Cartesio e Spinoza. La Francia è in piena campagna elettorale presidenziale; gli esponenti dei diversi partiti vengono a testimoniare davanti ai giudici che preferiscono la libertà alla sottomissione. Nicohas Sarkozy, allora ministro dell'Interno, invia alla giustizia una lettera nella quale esprime il suo aperto appoggio: «Preferisco l'eccesso di caricatura alla sua assenza». Senza sorpresa, il giornale sarà prosciolto un mese dopo. Per quanto mi riguarda non voglio dire che fosse bene condannarlo, ma che la giustizia, in questa occasione, ha fallito nel restare indipendente dal potere politico e ha indebolito il suo prestigio.


Alcune riflessioni

Quali conclusioni trarre da questa vicenda delle vignette? Senza dubbio ha stabilito un modello per l'interpretazione di incidenti accaduti e che accadranno ancora. Infatti, la "vicenda Rushdie", a cui talvolta viene paragonata, le assomiglia solo in parte: se la fatwa di Khomeini e le manifestazioni nel mondo musulmano ricordano gli avvenimenti recenti, il romanzo "I versetti satanici" non ha nulla a che vedere con la pubblicazione delle vignette. Scrivendolo, Salman Rushdie non cercava né di difendere la libertà di stampa, né di smascherare il fanatismo musulmano.

Le caricature hanno portato alla luce un conflitto, interno ai paesi europei, tra due atteggiamenti nei confronti delle loro popolazioni musulmane e delle velleità fondamentaliste da loro espresse: esortare al confronto esacerbando il conflitto, o cercare in primo luogo di non urtare le suscettibilità. Ci permetteremo di non approvare senza niserve il primo atteggiamento, illustrato dai giornalisti di "JyllandsPosten". È fallace presentare queste peripezie come una battaglia tra censura e libertà d'espressione, come hanno fatto i demagoghi del partito del Popolo danese, senza considerare il contenuto delle parole proferite, quando è in gioco il rifiuto o l'accoglienze di quelli che non condividono le idee della maggioranza. Oggi, la richiesta di una libertà d'espressione integrale è la facciata abituale della xenofobia, il tema comune di movimenti come il partito del Popolo danese, l'Interesse fiammingo in Belgio o il partito della Libertà in Austria. Quando il capo dell'estrema destra svizzera Cristoph Blocher difende la propaganda del suo partito che presenta gli stranieri come vacche nere da cacciare fuori dal paese, pretende semplicemente intavolare una discussione; chiunque glielo rimproveri è un censore. «I manifesti sono fatti per provocare, per suscitare un dibattito. Bisogna smetterla di vedere razzismo ovunque.» Viene alla memoria un precedente significativo: all'epoca della vicenda Dreyfus, l'organo più virulento dell'antisemitismo, diretto da Edouard Drumont, si chiamava, già allora, "La libera parola"...

Non è meno sbagliato collocare questo atteggiamento in continuità con Voltaire, che nel XVIII secolo lottava contro gli abusi della chiesa cattolica. Quelli che lo fanno si guardano bene dal ricordare una differenza molto importante: Voltaire e i suoi compagni di battaglia si opponevano alle istituzioni che dominavano la loro società, lo stato e la chiesa, mentre i militanti attuali ricevono l'appoggio e l'incoraggiamento dei ministri e dei capi di partito al potere. L'amalgama diventa fuori luogo quando i combattenti per la libertà si assimilano ai dissidenti del paesi comunisti nell'Europa dell'Est: questi potevano pagare la loro audacia con molti anni di deportazione nei gulag, quelli "rischiano" di vedersi invitare al tavolo del capo di stato. È un po' eccessivo, riconosciamolo, voler beneficiare degli onori riservati ai perseguitati e dei favori concessi dai potenti.

Le popolazioni autoctone dei paesi europei sono divenute più intransigenti con gli immigrati, in particolare musulmani. La paura di tali popolazioni aumenta, come dimostra questa idea assurda: le autorità di Rotterdam hanno pensato di vietare che nelle vie della città si parli una lingua diversa dall'olandese! La paura ha la spiacevole conseguenza di rafforzare le ragioni di avere paura: la repressione e la discriminazione nutrono il risentimento e provocano a loro volta atti violenti. L'estrema destra xenofoba si è rafforzata in Austria, nel Belgio fiammingo, in Danimarca, in Francia, in Italia, nei Paesi Bassi, in Svizzera... La parola "islamofobia" corrisponde ormai a una realtà, parlare male dell'islam non è soltanto lecito, è doveroso. In Occidente, siamo convinti di averne il diritto: "noi" difendiamo la libertà, magari in maniera un po' irriverente, "loro" rispondono alle nostre parole con violenza e omicidi. Così facendo, dimentichiamo che anche le nostre parole possono avere conseguenze nefaste: se grazie a esse i decisori politici si convincono che i musulmani sono intrinsecamente violenti e irragionevoli, non esiteranno domani a inviare su di loro bombardieri e missili per farli ragionare... La violenza non è solo là dove si crede.

Da parte loro, gli imam fondamentalisti europei hanno acquisito una notorietà pubblica mai vista prima. Nei paesi musulmani le masse manipolate si sono rafforzate nella convinzione che gli occidentali li disprezzano e li umiliano e sono pronte a cercare ogni minima occasione per vendicarsi; l'influenza che subiscono da parte dei fondamentalisti è aumentata. Diverse decine di uomini e donne sono morti in seguito alla pubblicazione delle vignette; anche se non si può accusare di ciò i giornalisti, bisogna ormai riconoscere che un tale concatenamento di cause ed effetti è divenuto probabile. I governi dittatoriali e demagogici di numerosi paesi musulmani ne approfittano per orientare il malcontento della popolazione nella direzione più conveniente. Se ne concluderà che polemizzare non è un mezzo appropriato per far coesistere pacificamente comunità differenti.

La reazione proveniente dai paesi musulmani, nonostante sia stata inquadrata e manipolata dalle autorità politiche, mostra inoltre che l'esperienza religiosa assume in essa una forma a cui gli europei non sono più abituati. Per loro va da sé che la religione è un affare privato e non deve sconfinare nell'organizzazione della vita sociale; a questo proposito, anche i fedeli di religione cattolica si comportano come protestanti individualisti. Nei paesi musulmani avviene esattamente il contrario. Per questo motivo, affrontare il problema del ruolo che occupa la religione nella società rimette in discussione l'immagine che ciascuno ha non solo della propria identità collettiva, ma anche della propria identità interiore, un'operazione che non va presa alla leggera. I credenti musulmani vivono in un mondo mentale strutturato in modo diverso da quello dei credenti cristiani e si rendono conto che questo mondo oggi è fragile e minacciato. Nei paesi europei gli uni e gli altri sono obbligati a vivere a contatto, nel quadro di uno stato secolare; per i musulmani, che spesso provengono da famiglie tradizionali di piccoli paesi, non è sempre facile adattarsi a questo cambiamento da un giorno all'altro. Il loro sentimento di marginalità li porta a rifugiarsi maggiorente in un'identità tradizionale. Con la generazione successiva, la situazione si aggrava, invece di attenuarsi: i nati in Occidente non dispongono più di quell'identità e alcuni sono tentati dagli schemi riduttivi proposti dai predicatori islamisti, una tradizione immaginaria che diventa il loro quadro mentale.

Un'altra lezione tratta da questi avvenimenti riguarda il grado di interconnessione degli abitanti del pianeta. Non si era mai visto prima: una pubblicazione in un quotidiano di Copenaghen provoca l'indomani una sanguinosa sommossa in Nigeria! Chi l'avrebbe mai immaginato? La diffusione istantanea dell'informazione, in particolare per via della circolazione di immagini alla televisione, sta scuotendo il nostro rapporto con il mondo e influenza profondamente il comportamento di tutti. È una diffusione planetaria (grazie alle antenne paraboliche e a Internet); provenendo da fonti diverse, sfugge a ogni controllo centrale. Al-Jazeera fa concorrenza alla CNN, cosicché gli avvenimenti di Gaza hanno oggi un impatto immediato sui quartieri generali di Londra e Parigi. Si scopre così che i nostri atti possono avere conseguenze ben più estese di quanto non avessimo previsto - è tempo di interiorizzare questo nuovo dato di fatto. È una constatazione inquietante: ciò significa, per esempio, che nel miliardo di musulmani che abitano la terra se ne troverà sempre qualcuno, fanatico o squilibrato, pronto a uccidere colui che gli apparirà come un nemico della sua fede. Non sarà difficile trovare le armi. Nessuna polizia del mondo può garantire a tutti un'immunità contro questa nuova minaccia che attraversa le frontiere con la facilità di un messaggio su Internet. Insomma, bisogna abituarsi a vivere con la presenza di questo pericolo inedito. La libera circolazione dell'informazione, paradossalmente, spinge verso una riduzione della libera espressione.

Le riserve che ho potuto formulare a proposito della vicenda delle caricature non implicano affatto che si debba rinunciare ai principi fondatori della democrazia liberale. Il potere teologico non deve mischiarsi con quello politico, la libertà e la pluralità dei media devono essere protette, il diritto delle donne alla libera scelta e alla dignità va difeso. La tolleranza verso gli altri si eserciterà più facilmente se poggerà su un fondamento d'intransigenza verso tutto ciò che è intollerabile. Tali esigenze si estendono alla sfera internazionale: è inammissibile attaccare le ambasciate o "condannare a morte" i cittadini di altri paesi; queste regole devono essere ricordate a tutti i governi. Non si tratta affatto, perciò, di esigere l'instaurazione di una censura o la rinuncia alla libera critica. In compenso, bisogna ricordarsi che le nostre azioni pubbliche non avvengono in uno spazio astratto, ma necessariamente all'interno di un contesto storico e sociale. Per questo motivo bisogna tenere conto, oltre che dei principi giuridici, anche del riconoscimento necessario agli immigrati che abitano in Europa. Ci Si può riuscire mostrando rispetto - non per le credenze, ma per i credenti, non tanto per il profeta Maometto quanto per gli umili lavoratori immigrati Abdallah e Mustafà...

Un'ultima osservazione. Nel momento in cui si esercitano responsabilità pubbliche, non è più sufficiente appellarsi alle sole convinzioni personali e al diritto di esprimerle; a esse si aggiunge l'esigenza di agire come individui responsabili, tenendo conto delle prevedibili conseguenze degli atti compiuti. Questa responsabilità non è la stessa per tutti, ma è legata direttamente alla crescita del potere di cui si dispone. Un ruolo decisivo incombe, pertanto, a tutti quelli che prendono parte all'organizzazione della sfera sociale, per esempio i politici - ma più ancora, forse, quelli che hanno il compito di dirigere e orientare i grandi media: direttori e redattori delle reti televisive e delle stazioni radiofoniche, dei giornali e delle riviste. L'uomo di strada gode di una maggiore libertà del Primo ministro, un giornale satirico e provocatore come "Charlie-Hebdo" di un quotidiano influente come "Jyllands-Posten", l'ambito universitario delle reti televisive, perché la responsabilità limita la libertà. Ma questa regola conosce soltanto gli estremi e la sua applicazione non ha nulla di meccanico; si verificano degli eccessi sia nella provocazione sia nell'autocensura.

Tuttavia, una cosa è certa: senza che il loro potere derivi dalla volontà popolare, i media influenzano l'opinione pubblica in maniera decisiva. Per acquisire una legittimità democratica, hanno una sola via a disposizione: imporsi autonomamente dei limiti. La libertà illimitata uccide la libertà.


Il discorso del papa

Il 12 settembre 2006 papa Benedetto XVI ha pronunciato all'università di Ratisbona un discorso sui rapporti tra fede e ragione. Alcuni passi del suo discorso, che riguardano il legame tra islam e violenza, hanno suscitato immediatamente forti reazioni nel mondo intero, in particolare nei paesi musulmani. Si è avuta come l'impressione che fosse sul punto di verificarsi di nuovo la vicenda delle caricature danesi, uno scatenarsi di violenze che sembrava confermare la veridicità delle insinuazioni papali. Lo stesso Benedetto XVI è apparso a disagio e ha rivolto le sue scuse a tutti quelli eventualmente feriti dal suo messaggio iniziale. Le sue frasi concilianti hanno indignato a loro volta altri ambienti, che avevano approvato il discorso originale. In particolare, a dar credito all'editorialista del "New York Times" David Brooks, era stato il popolo statunitense a reagire così: «Milioni di americani sono convinti che il papa non abbia alcun motivo di scusarsi. Essi considerano eccessiva la violenta reazione al suo discorso e alle caricature danesi, come segno ulteriore che una sorta di malattia intellettuale invade il mondo arabo».

Esattamente, come stanno le cose? Il discorso del papa Fede, ragione e università è stato poi pubblicato. Tutti hanno potuto leggerlo e meditarlo liberamente. La descrizione dell'islam occupa solo un piccolo spazio. Il nucleo del discorso riguarda, come indica già il suo titolo, le relazioni tra fede e ragione. La tesi di Benedetto XVI è che la religione cristiana abbia assorbito l'eredità greca della ragione, mostrando così la via che deve seguire ogni pratica religiosa nel mondo contemporaneo. Come si può immaginare, questa visione sincretica della religione cristiana affronta due avversari. Da un lato, i difensori della pura ragione, che vogliono collocare le questioni di fede al di fuori di essa. Dall'altro, i sostenitori della pura religione, che non vedono un rapporto intrinseco tra l'una e l'altra e, di conseguenza, accettano anche di diffondere la religione ricorrendo a mezzi poco razionali, come la violenza e la guerra.

È qui che fa il suo ingresso l'islam. Benedetto XVI non formula i suoi apprezzamenti in prima persona, ma si limita a citare due autori antichi. Uno è l'imperatore bizantino Manuele il Paleologo che, alla fine del XIV secolo, ha scritto un'opera in cui si descrive mentre dialoga con un saggio persiano sui rispettivi meriti delle religioni. «Mostrarmi pure ciò che Maometto ha portato di nuovo, e vi troverai soltanto delle cose cattive e disumane, come la sua direttiva di diffondere per mezzo della spada la fede che egli predicava». Il Dio cristiano, in compenso, «non si compiace del sangue, non agire secondo ragione [...] è contrario alla natura di Dio». L'anima è ragionevole, perciò bisogna avvicinarla con strumenti della ragione - le parole, non le armi. Il secondo commentatore è un teologo arabo andaluso dell'XI secolo, Ibn Hazm, il quale avrebbe scritto che Dio non intrattiene rapporti con il mondo di quaggiù, è assolutamente trascendente, al di sopra di ogni categoria, inclusa quella della ragione. L'islam, perciò, viene chiamato in causa semplicemente come esempio di una religione che rifiuta di trovare un accordo con la ragione; e poi il papa non esprime un'opinione personale al riguardo.

Chiediamoci in primo luogo, anche se ovviamente non è il punto che ha provocato la controversia, in quale misura immagini delle religioni cristiana e musulmana come queste corrispondano alla realtà. Sorgono subito seri dubbi riguardo alla veridicità del quadro delineato. L'islam talvolta si è diffuso con la forza, altre volte con le parole; alcuni dei suoi rappresentanti hanno rifiutato ogni relazione tra fede e ragione, altri, invece, hanno voluto difendere la loro coesione. Come hanno ricordato tutti i commentatori della controversia, è difficile, in questo contesto, non evocare la figura di colui che gli europei chiamano Averroè, il pensatore arabo del XII secolo, il cui manifesto dottrinale si intitola Trattato decisivo sull'accordo della fede con la filosofia. Del resto, grazie ad Averroè e altri letterati musulmani come lui, l'eredità del pensiero greco è stata trasmessa ai teologi e ai filosofi europei e specialmente a Tommaso d'Aquino che, nel XIII secolo, formulerà la propria sintesi tra filosofia (aristotelica) e religione (cristiana). Benedetto XVI si ispira a Tommaso d'Aquino, il quale non ignorava certo il musulmano Averroè...

Non si può nemmeno dire che il cristianesimo si sia sempre richiamato all'unità tra fede e ragione. I critici greci della nuova religione, nei primi secoli dopo Cristo, le rimproveravano proprio di voler tenere Dio al di fuori di ogni rapporto con le leggi della natura e della ragione. Nel II secolo Galeno scriveva: «Mosè pensa che tutto sia possibile a Dio, ma noi, greci, affermiamo che esistono cose per natura impossibili». E Porfirio, un secolo più tardi: «Dio non può tutto. Non può dire che due per due fa cento e non quattro. Infatti, la sua potenza non è l'unica regola dei suoi atti e della sua volontà». I greci rimproveravano ai cristiani proprio ciò che Benedetto XVI imputa ai musulmani.

Senza voler entrare nel merito di un problema complesso, al quale sono stati dedicati numerosi studi, si può osservare che la fusione armoniosa tra fede e ragione nei cristiani è lontana dall'essere un'evidenza. Non si può affermare, sulla base di una parola, che il logos di Platone sia lo stesso di quello di san Giovanni, né che san Paolo abbia scelto di predicare in Grecia per amore della filosofia; e se fosse, più semplicemente, perché gli avevano impedito di portare la parola di Dio in Asia? Sono molti gli autori cristiani, a parte i protestanti e i positivisti moderni menzionati dal papa, che hanno rinunciato a conciliare Dio con la ragione umana, affermando che sarebbe come sminuirlo: «Credo perché è assurdo», diceva Tertulliano. Il cristianesimo è una religione dalle aspirazioni universali, che ha dato importanza all'amore umano; non per questo si può sostenere che la creazione del mondo, o l'apparizione dell'uomo-Dio, o l'Immacolata Concezione, o la Trinità, o la transustanziazione o la resurrezione siano credenze fondate sulla ragione.

Il rapporto tra dottrina cristiana e filosofia greca è più complesso di quanto non lasci intendere Benedetto XVI, ma il papa ha bisogno di presentarlo come qualcosa di armonioso, per avanzare due tesi discutibili, vale a dire che tra le grandi religioni solo il cristianesimo abbia interessi in comune con la ragione; e che l'identità dell'Europa deriva dall'incontro fra tradizione greca e tradizione cristiana, con la più tarda aggiunta di un ingrediente romano. Per sostenere la sua prima tesi, il papa è obbligato a giocare sul significato della parola "ragione", ora riducendo, ora ampliandolo (la ragione degli scienziati è giudicata troppo chiusa, quella delle altre religioni troppo lassa, quella della dottrina cristiana ha la giusta estensione - e casualmente coincide con quella dei filosofi greci...). Per ciò che concerne la seconda tesi, l'idea che si fa il papa dell'identità collettiva risulta problematica: essa non è stabilita una volta per tutte, è fatta di incontri con l'esterno e di conflitti interni; gli uni e gli altri si fermeranno solo con la morte della collettività. Gli ingredienti greci e cristiani sono certamente presenti nell'identità europea, ma non sono i soli e, finché l'Europa vivrà, continuerà ad assorbirne altri.

L'insegnamento originale di Cristo non dice che la fede deve diffondersi con la forza; le lotte che annuncia sono puramente spirituali. Ma i cristiani non si sono sempre limitati a questo. L'espressione del Vangelo «Obbligali a entrare» (nella casa di Dio), è servita per giustificare numerose violenze. Non ci sentiamo in diritto di ricordare al papa i lunghi secoli di storia, nel corso dei quali la guerra, anche la guerra Santa, è stata considerata un mezzo del tutto legittimo, perfino ragionevole, per diffondere la dottrina di Cristo, o una delle sue versioni a discapito di un'altra. Ci sarebbe l'imbarazzo della scelta tra crociate, conquiste coloniali e guerre di religione. Mezzi pacifici e violenti si ritrovano ben rappresentati in ciascuna di queste due grandi religioni monoteiste. Senza gran fatica, si può anche individuare in quali circostanze si propenda per gli uni o per gli altri. Ricordiamo che l'imperatore Manuele II, tanto apprezzato dal papa, scrive il suo dialogo in un momento in cui la capitale è assediata dall'esercito ottomano e la caduta della città è imminente. Si direbbe che gli uomini diventino ragionevoli quando non possono più imporsi con la forza... Se gli apostoli di Cristo non preconizzano l'uso delle armi, il motivo tra l'altro è che, contro le legioni romane, sanno di non avere alcuna possibilità; preferiscono, dunque, la parola e la persuasione pacifica. Sarà tutta un'altra cosa nel medioevo. Le cose cambieranno ancora quando i re si assicureranno tutto il potere secolare in Europa: la chiesa cristiana favorirà allora nuovamente la via spirituale.

Probabilmente si può fare lo stesso discorso per l'islam. Gli esegeti hanno osservato da tempo che, mentre risiede alla Mecca, il Profeta è pacifico, quando si insedia a Medina invita alla guerra santa. Il fatto è che nel frattempo sono accaduti altri avvenimenti e il contesto non è più lo stesso. Risultato, alla Mecca è solo un predicatore; a Medina, assumendo autorità religiosa e potere politico, diventa un capo guerriero. Ma il papa si sbaglia quando attribuisce un versetto pacifico del Corano, «Non v'è costrizione nella religione», (II, 256) al periodo della Mecca; esso risale, invece, all'epoca di Medina e questa collocazione ne spiega tutto il suo significato: anche quando siete in una posizione di forza, non dovete imporre la conversione.

Il papa avrebbe potuto ricavare i suoi esempi di violenza o di non violenza sia tra i cristiani sia tra i musulmani. Paragonabili sul piano storico, le due scelte non lo sono su quello della morale - perché lo stesso papa è cristiano. L'esigenza morale, come sappiamo, si formula solo in prima persona. C'è un merito nel comportarsi virtuosamente (per esempio rinunciando alla violenza), non ve n'è alcuno nell'esigere dagli altri che agiscano nello stesso modo. Del resto, è uno degli insegnamenti di Cristo: «Come? Guardi la pagliuzza che è nell'occhio del tuo vicino, e non vedi la trave che è nel tuo?».

Nelle spiegazioni fornite all'indomani delle proteste musulmane, il papa ha sostenuto la sua buona fede: non aveva esposto il suo punto di vista, si era limitato a citare due autori antichi, uno dell'XI, l'altro del XIV secolo. Ma non è un argomento convincente: nulla impediva a Benedetto XVI di esprimere il suo disaccordo con gli autori citati. L'impressione è che abbia preferito utilizzare questo procedimento indiretto per cautelarsi, nel caso in cui gli fosse stata rimproverata questa opinione (un po' come Brooks che, nella tribuna citata prima, non esprime direttamente la sua opinione, ma si trincera dietro «Il modo in cui gli Statunitensi comuni vedono il mondo arabo»). La sottigliezza del procedimento, tuttavia, è stata annullata dalla semplificazione tipica del mondo mediatico: infatti, le opinioni dei due autori antichi sono state attribuite al papa! Benedetto XVI aveva dimenticato che non si rivolgeva ai soli partecipanti di un seminario universitario e che il suo discorso, riassunto e semplificato, avrebbe immediatamente fatto il giro del mondo?

Si fatica a immaginare, poi, che il papa, citando l'imperatore bizantino, non abbia previsto la reazione ostile all'immagine che egli delinea dell'islam («Maometto ha portato solo cose cattive e disumane»). Certo non incita a una guerra delle civiltà, ma il discorso, con le sue semplificazioni e omissioni, contribuisce al famoso "scontro" che incoraggiano anche i predicatori musulmani intransigenti.

Il papa ha ragione a condannare la violenza messa al servizio delle idee, anche quando fossero le più giuste del mondo; così come fa bene a rivolgere questo appello ai musulmani perché oggi alcuni di loro sono tentati dalla guerra santa. Ma il suo argomentare sarebbe stato ben più convincente se, piuttosto che ricordare la violenza musulmana del XIV secolo, avesse cominciato evocando quella dei cristiani: noi abbiamo rinunciato alla violenza di un tempo, avrebbe potuto dire, non potreste fare anche voi altrettanto? È vero che Maometto è stato un guerriero violento, ma non sempre, anche i difensori di altre ideologie hanno agito in questo modo: l'affermazione ha bisogno di così tante precisazioni che perde la sua ragion d'essere. Tanto più che se, ai giorni nostri, i cristiani non diffondono più la loro religione ricorrendo alla guerra, gli stati nei quali vivono non hanno rinunciato a servirsi della forza per imporre le idee in cui credono e l'ordine sociale che considerano migliore: così è stato nella guerra in Iraq, giustificata in nome dei valori democratici (espressi sovente, del resto, con un lessico religioso).

Si possono nutrire, perciò, alcuni dubbi quanto alla veridicità e all'utilità dell'intervento del papa. Bisogna allora giudicare legittima la reazione che ha suscitato in alcuni paesi musulmani? Ancora una volta, si sono sentiti i predicatori, i soliti agitatori e manipolatori di professione, proferire minacce, incitare alla violenza fisica, esortare alla guerra santa. Tutto avveniva come se cercassero di difendere con la violenza l'idea che l'islam non è intrinsecamente violento! A loro volta, vogliono vedere solo i torti degli altri ed evitano di interrogarsi sulle proprie carenze. Preferiscono assumere il ruolo della vittima per legittimare le violenze che loro stessi infliggono agli altri. Certo, il richiamo alla violenza è presente in altre grandi religioni e non solo nell'islam; ma, oggi, solo l'islam viene invocato come giustificazione religiosa di atti sanguinosi. Se si tratta di un abuso (come io credo), è dovere dei musulmani stessi condannarlo e impedirlo in futuro.

Bisogna segnalare, tuttavia, che è giunta anche un'altra reazione dal mondo musulmano. Ha assunto la forma di una lettera aperta al papa, pubblicata sulla stampa il 15 ottobre 2006, firmata da trentotto ulema (i teologi islamici), appartenenti a numerosi paesi asiatici, africani ed europei. Scritta con un tono molto deferente, la lettera sottolinea le numerose inesattezze storiche presenti nel discorso di Ratisbona, cerca di presentare un'immagine molto più pacifica dell'islam (l'attributo più frequente di Dio non è "il Misenicordioso"?) e difende un «dialogo schietto e sincero». Si può comunque deplorare che, così facendo, gli ulema non spiegano come conciliare i versetti pacifici del Corano con altri versetti che predicano la conversione con la forza o anche l'omicidio in caso di rifiuto (non li prendono in esame). È ancora più deplorevole che non si rivolgano con altrettanta, se non maggiore, insistenza a coloro che si fanno beffe quotidianamente della loro interpretazione dell'islam, vale a dire gli islamisti, questi "agitatori", come scrive Abdelwahab Meddeb, «che hanno mutato una tradizione aperta all'esperienza dell'Assoluto e dell'Invisibile in un'ideologia sanguinosa che raccoglie tutti gli esclusi e i frustrati della Terra».

Il discorso del papa è stato inopportuno, forse anche sbagliato, ma le reazioni suscitate hanno superato la frontiera del crimine. L'uno non giustifica le altre, anche se dimostra, una volta di più, che dichiarare perentoriamente che gli altri sono irrazionali e violenti non è il modo migliore per indurli a ragionare e agire in maniera meno violenta.


Dalla parte dell'islam

Si può trovare un terreno di intesa con coloro che in Europa o altrove auspicano che si stabilisca uno scambio costruttivo tra musulmani e non musulmani. È sufficiente accettare due postulati, che in Europa appartengono all'eredità dell'illuminismo. Il primo è di ordine giuridico e politico. Esso stabilisce che le società umane sono governate con l'aiuto di leggi stabilite dai loro cittadini, le quali, nella vita pubblica, prevalgono su ogni altro vincolo. È il principio stesso della democrazia, o sovranità del popolo (osteggiato da Sayyid Qotb e dagli islamisti in nome della "sovranità di Dio"), che ha come corollario il riconoscimento di una uguale dignità a tutti quelli che formano il popolo, di conseguenza la loro uguaglianza di fronte alla legge, che siano uomini o donne, neri o bianchi, dell'una o dell'altra religione. In un tale stato di diritto, non è consentito farsi giustizia da soli: nessuna circostanza attenuante può essere riconosciuta ai "crimini d'onore", né alle violenze compiute per motivi religiosi. In forza di questo stesso principio, non si ha alcun diritto di imporne un modo di comportansi agli abitanti di altri paesi: la fatwa di Khomeini che "condanna" a morte un cittadino britannico si fa beffe dei codici delle nazioni. Questo principio consacra, perciò, la separazione del potere politico e di quello religioso.

Il secondo postulato è di ordine antropologico. Esso afferma la diversità delle società e delle culture umane, mente tutti gli isomini appartengono alla stessa specie e partecipano di una medesima umanità. Questa pluralità si manifesta nel tempo e nello spazio. Ciò significa che bisogna accettare uno sguardo storico sul passato e prendere atto della trasformazione delle mentalità. L'etnologia e lo studio delle culture completano il contributo della storia: ci mostrano che i popoli della terra organizzano la loro esistenza in mille modi diversi, ciascuno privilegiando la propria religione, i propri costumi e le proprie pratiche. Stando così le cose per la nostra specie, la società che accoglie favorevolmente questa pluralismi si trova avvantaggiata rispetto alle altre. Non è un caso se l'età dell'oro della cultura musulmana corrisponde anche a un periodo di massima apertura alle altre culture: greca e romana, persiana e indiana, ebraica e cristiana. Perseguitare gli adepti di un'altra religione, che siano "persone del Libro" (monoteisti) o pagani, condannare gli apostati che cambiano fede o gli atei equivale a misconoscere questa caratteristica costitutiva dell'umanità.

Per accettane questi due postulati, preliminari a ogni dialogo che non si voglia limitare a un semplice scambio di cortesie, non è affatto necessario che i musulmani rinuncino all'islam. In primo luogo perché il fatto di essere credenti non implica la scomparsa delle atre identità e la cessazione di essere, nello stesso tempo, cittadini di un paese, rispettosi delle sue leggi. Contrariamente a ciò che pretendono gli integralisti, la religione non ha mai governato l'intera esistenza. E contrariamente a ciò che annunciano gli esperti mediatici dell'islam, ricomparsi in Occidente, i musulmani non sono una specie eccezionale in seno al genere umano, il cui gesto più insignificante sarebbe dettato dalla loro appartenenza culturale, cioè dalla loro religione, con esclusione di ogni altra determinazione. A dispetto di ciò che immaginano gli uni e gli altri, le norme morali e religiose, quando esistono, non determinano meccanicamente gli atti. «Un dogma religioso non ha mai un effetto diretto in politica», osserva giudiziosamente Oliver Roy. Come tutti gli altri esseri umani, i musulmani modellano il loro comportamento sotto la spinta di molti fattori - tra cui anche i principi tratti dalla religione. Lungo tutta la storia, i cittadini dei paesi musulmani, come il mondo intero, hanno obbedito alle leggi - tutto considerato molto varie - dei paesi che abitavano.

Per cominciare, allora, bisogna cessare di immaginare che il Corano fornisca l'unica chiave di lettura dei comportamenti dei musulmani di oggi. Questa constatazione non vieta evidentemente di chiedersi allora quale sia, a questo riguardo, il messaggio dei testi fondatori islamici. Non è affatto semplice trovare una risposta. Come ogni testo all'origine di una religione mondiale, il Corano e gli altri scritti islamici sacri, contengono affermazioni che vanno in diverse direzioni o si prestano a numerose interpretazioni. Molteplici scuole esegetiche si affrontano su questo terreno da secoli: non esiste una dottrina islamica unica - come non esiste una versione unica del cristianesimo -, ma una pluralità di tradizioni. Non è certo qualcuno estraneo a questo campo come sono io a poter esprimere un'opinione ufficiale a riguardo; tutt'al più potrei riassumere le impressioni che ricavo dalle mie letture.

Senza dubbio non rischio di sollevare molte obiezioni partendo da questa constatazione: tra i lettori del Corano oggi, si contrappongono due grandi correnti. La prima è quella dei fondamentalisti, i quali vorrebbero che il senso letterale dei testi fosse stabilito come vero e giusto per l'eternità; perciò rifiutano di riconoscere che questi testi sono apparsi in un dato momento storico e ne conservano le tracce. Di conseguenza, impegnati nella loro contro riforma, aspirano a sottomettere i costumi d'oggi ai principi di un tempo. Questi esegeti fondamentalisti, che siano conservatori o riformatori, non devono evidentemente essere confusi con gli islamisti, il cui programma è propriamente politico. La seconda corrente è quella del movimento liberale di interpretazione aperto alla modernità e più in generale al trascorrere del tempo, dunque alla pluralità e alla mobilità delle società umane. In quest'ottica, il Corano e gli altri testi sacri contengono formule il cui significato appare solo in rapporto al contesto storico dell'epoca; di conseguenza, in un contesto differente, tale significato deve essere riformulato.

Numerosi specialisti dell'islam hanno illustrato questa possibilità di leggere il Corano tenendo conto delle circostanze della sua creazione. Nel suo libro Islam e libertà, Mohamed Charfi ha presentato una sintesi dei loro argomenti e una difesa dell'islam moderno. Egli fa riferimento alla condizione della società anteriore, che permette di comprendere lo spirito generale delle innovazioni coraniche, come quella concernente l'eredità. Talvolta, è sufficiente leggere bene ciò che si trova scritto. Per esempio, l'unità del potere politico e di quello teologico, rivendicata dagli islamisti ma anche incriminata da molti orientalisti, non è affermata dal Corano. Uno dei primi rappresentati di questo movimento liberale d'interpretazione, l'egiziano Alì Abderraziq (1888-1966) ha dato il via a un dibattito sull'argomento, che prosegue ancora oggi. Nel suo libro L'islam e i fondamenti del potere (1925), egli muove dall'affermazione, ricorrente nel Corano, che la rivelazione da esso riportata è completa e non lascia nulla di inespresso; il fatto è che non si parla mai di califfati, né di un qualsivoglia stato islamico. Le strutture statali posteriori non hanno alcun fondamento nella dottrina religiosa, sono opera di governanti che perseguono i propri interessi. «Ciò che è chiamato trono si eleva solo sulla testa degli uomini, Si mantiene solo gravando sulla loro schiena». La differenza delle finalità spiega questa separazione: la religione (musulmana) è universale, lo stato è per necessità particolare. Se i califfi o i capi di stato moderni si richiamano all'islam, il motivo è che sono alla ricerca dei vantaggi della legittimità divina: siamo di fronte a un esempio della sottomissione del potere religioso a quello politico, piuttosto che dell'inverso. La religione è una facciata, non la realtà di questi regimi.

Charfi, a sua volta, richiama molti versetti che vanno in questa direzione, come le ingiunzioni rivolte da Dio a Maometto: «Tu non sei costì per costringerli» (L, 45). «Non hai nessuna autorità vincolante da esercitare su di essi.» (LXXXVIII, 2 1-22). Si capisce bene: la società contemporanea di Maometto non conosce uno stato, solamente una comunità religiosa di fedeli. Sono l'imam Khomeini e altri islamisti a imporre qui una lettura anacronistica e, per così dire, eretica dei testi sacri, trattando il Corano come se fosse la costituzione di uno stato moderno. Tutta la storia dei paesi musulmani illustra questa strumentalizzazione dell'islam da parte dei capi di stato che, monarchi ereditari o dittatori, perseguono prima di tutto interessi personali. Un altro indizio del fatto che potere politico e potere religioso rimangono distinti è fornito dall'atteggiamento dei partiti di obbedienza islamica in epoca contemporanea, che sono posti di fronte a una scelta radicale. O predicano la fusione dei due, ma allora si condannano alla marginalità (per esempio in Pakistan, dove i partiti religiosi non hanno mai superato il 10% del voto popolare), oppure accedono al potere, ma a un prezzo elevato: rinunciano a islamizzare il diritto e le istituzioni dello stato (come in Turchia).

Mentre chiede la separazione del potere politico e religioso, il profeta Maometto riconosce la pluralità dei popoli e la distinzione tra ciò che è giusto (nel mondo umano quaggiù) e ciò che è conforme alla fede (nei rapporti con Dio). La giustizia non consiste nel diffondere l'islam, ma nel non maltrattare gli altri, anche quando fossero dei non musulmani. «Dio non vi proibisce di essere buoni e giusti verso coloro che non vi hanno combattuti per causa della religione e non vi hanno espulsi dalle loro case.» (LX, 8). La coesistenza pacifica è perfettamente ammessa, perfino raccomandata: «Fate guerra, per la causa di Dio, a coloro che vi fanno guerra ma non siate aggressori: Iddio non ama gli aggressori» (II, 190).

Per interpretare il testo del Corano andando oltre il significato letterale delle parole, talvolta è sufficiente richiamare un elemento del contesto. Per esempio, l'ora in cui Sarà rotto il digiuno è stata decisa in base alla localizzazione dell'Arabia. »Ma che fare per gli abitanti delle zone del polo, in cui i giorni talvolta sono interminabili?», si chiede ingenuamente Charfi. È naturale che bisogna adattare la prescrizione alle circostanze; a dire il vero, l'adattamento è richiesto per molti precetti. In altri casi ancora, i testi si contraddicono. La scuola fondamentalista suggerisce di lasciar perdere questi casi, senza tenere alcun conto del senso,ricorrendo alla sola cronologia: le sure tarde abrogherebbero quelle più antiche. Ora, come abbiamo visto, il Profeta è stato pacifico nei primi anni della sua predicazione e nell'ultima parte della sua vita è diventato un guerriero. I fondamentalisti scelgono dunque di aderire all'interpretazione militare del suo insegnamento. Charfi ricorda e difende la diversa opinione di uno specialista sudanese dell'islam, Mahmoud Mohammed Taha: una raccomandazione più universale deve prevalere su quella che lo è meno, perché l'orizzonte ultimo dell'islam è l'umanità intera. In questo caso sono al contrario le sure pacifiche a prevalere, perché solo la pace esercita un'attrattiva universale.

Taha è il martire della scuola liberale d'interpretazione: questo animatore della cerchia dei Fratelli repubblicani sarà accusato di apostasia per le sue teorie. Avendo rifiutato di abiurarle, sarà impiccato nel 1985, all'età di settantacinque anni. Lo spirito di questa scuola interpretativa, dunque, è più storico e più universale di quello dei fondamentalisti - un aspetto che lo avvicina albo spirito dell'illuminismo, affermando la pluralità delle culture e l'unicità della civiltà.

Non è comunque necessario abiurare l'islam per entrare nella modernità, aderire alla democrazia e praticare uno scambio fecondo con quelli che non sono come voi: essere credenti non impedisce di compiere i vostri doveri di cittadini. Ma è anche possibile rinunciare al letteralismo fondamentalista nella lettura dei testi sacri, come chiedono Abderraziq, Taha e molti altri autori contemporanei, educati originalmente nella cultura musulmana. A sua volta, la lotta contro le basi ideologiche dell'islamismo potrà essere condotta a partire da una lettura non dogmatica dell'islam stesso; nessun bisogno, per questo, di forzare il senso della tradizione, è sufficiente prenderla in tutta la sua ampiezza. Questa scelta è sotto tutti i punti di vista preferibile: è una maniera molto più promettente di combattere gli estremisti di quanto non sia l'amalgama tra islamismo e islam. Per portare veramente i suoi frutti, deve essere difesa, più di quanto non avvenga oggi, dalle élite intellettuali, spirituali, politiche dei paesi a maggioranza musulmana e non tanto dalle personalità occidentali. È tempo di prestare maggiore ascolto alla voce della maggioranza silenziosa e pacifica dei musulmani di questi paesi, più che agli appelli alla guerra e all'intolleranza, lanciati dagli agitatori islamisti. Se reti televisive come al-Jazeera ricorressero a predicatori aperti al mondo contemporaneo e al dialogo con quelli che non sono come loro, darebbero un grosso contributo all'evoluzione positiva delle parti del mondo alle quali si rivolgono.

L'evoluzione verso un islam liberale può avvenire solo a opera dei musulmani stessi, non può essere imposta dall'eeterno: l'identità, positiva questa volta, di colui che porta il messaggio è essenziale per la maniera in cui sarà accolto. In Francia la rivalità e il conflitto con la Germania sono durati per centinaia di anni, causando guerre a ripetizione e innumerevoli sofferenze; c'era da pensare che l'odio sarebbe stato inesauribile. Eppure è stato vinto, grazie all'identità di colui che ha assunto il messaggio di riconciliazione, il generale de Gaulle. Lo stesso messaggio difeso all'epoca da un ex collaborazionista o semplicemente da un imboscato sarebbe stato rifiutato con indignazione; provenendo dal grande eroe di guerra, da colui che aveva detto "no" fin dal primo giorno e aveva più ragioni di chiunque altro di non perdonare gli antichi nemici, questo messaggio, riportato da altri antichi combattenti, resistenti, deportati, non poteva essere ignorato. Il risultato, inconcepibile per la generazione precedente, è stato l'instaurazione di un'intesa esemplare tra i due popoli; tuttavia, le passioni nazionaliste suscitano un fervore quasi uguale alla devozione religiosa. Analogamente, quelli caratterizzati da una solida fede hanno le migliori opportunità per condurre l'islam verso la sua riconciliazione con il mondo moderno.

Una simile evoluzione della dottrina islamica è auspicabile; non bisognerebbe comunque, vedere in essa una condizione necessaria alla trasformazione dei paesi musulmani. La vera fonte delle tensioni non è nei vicoli ciechi dell'esegesi teologica, ma nel sentimento di frustrazione e di umiliazione provato in varie occasioni dalla popolazione. Il rimedio non è né religioso né culturale, ma politico e implica che questi paesi riescano a negoziare il loro ingresso nella modernità. In realtà, essa non si confonde, o non più, con l'Occidente europeo e nordamericano, e i paesi musulmani hanno senza dubbio interesse a uscire dal doloroso testa a testa con questo fratello nemico, ancor più irritante perché possiede dei beni desiderabili. Il Giappone, alcuni paesi del Sudest asiatico, l'India, il Brasile illustrano oggi altre vie che conducono a un'esistenza più prospera e più democratica. La Cina e la Russia si impegnano con maggiori difficoltà nella via delle riforme politiche, ma anch'esse sfuggono al potere del risentimento e rendono possibile l'arricchimento della loro popolazione.

Gli stati a popolazione in prevalenza musulmana potrebbero ispirarsi a questi altri modelli e abbandonare così la "rivalità mimetica", per usare le parole di René Girard. Ma per questo bisognerebbe che i dirigenti dei paesi ricchi di questa parte del mondo utilizzassero meglio le immense rendite che ricavano dalle risorse naturali in loro possesso, gas e petrolio. Piuttosto che investirle nella sola difesa e promozione dell'islam, dunque della propria identità culturale tradizionale, dovrebbero incoraggiare l'educazione di eccellenza, sia in scienze naturali sia in scienze sociali, un'educazione aperta a tutti - uomini o donne, credenti o non credenti. Se desiderano il benessere del loro popolo, dovrebbero rendere possibile una migliore conoscenza delle altre culture, quindi anche l'apprendimento di altre lingue, delle numerose traduzioni, sia scientifiche sia letterarie, oltre a frequenti viaggi e soggiorni all'estero. Per ora ne siamo ben lontani.

Prendere coscienza di questo mondo multipolare che oggi si diffonde consentirebbe anche di cessare di attribuire tutte le proprie difficoltà ai crimini di ieri o di oggi dell'Occidente, di uscire dal risentimento e di rivolgere uno sguardo citrico su di sé. Come scrive Charfi: «È talmente più facile accusare gli altri, addossare la responsabilità all'altro soprattutto quando, effettivamente, non è innocente». Ma è meglio non cedere a questa facilità. Piuttosto che limitarsi alle sole cause esterne di una situazione deplorevole, sulle quali la maggior parte delle volte non si ha alcuna possibilità di intervenire - le vociferazioni contro l'ingiustizia non hanno mai ridotto l'egocentrismo dei potenti -, bisogna preoccuparsi dei fattori interni del malessere presenti in ogni società, che ne hanno una responsabilità non meno grande: ineguaglianze sociali molto evidenti, mancanza di educazione, assenza di libera stampa, debolezza delle opposizioni, regimi polizieschi, appropriazione dello stato da parte di coloro che sono considerati suoi servitori. Bisogna in primo luogo incriminare i dirigenti politici corrotti e cinici, che si preoccupano del loro arricchimento personale mentre predicano la virtù agli altri e manipolano le masse sbandate, dando a credere che è tutta colpa dell'Occidente.

L'umiliazione che nutre il risentimento di queste popolazioni musulmane deriva da più fattori. A motivarla non sono solo la presenza sul loro territorio di eserciti stranieri, o altri interventi di forza; è anche la necessità di vivere in un mondo formato, materialmente e concettualmente, da esperienze che essi non riconoscono come loro specifiche. I paesi occidentali possono ritirare i loro eserciti dai paesi musulmani o condurre una politica più equa nei confronti dell'insieme degli stati della regione. Ma è alla popolazione musulmana stessa che spetta il compito di uscire dalla confusione tra modernità e Occidente, di accogliere serenamente i valori democratici, cessando di interpretarli come un segno di sottomissione ai paesi occidentali, con il pretesto che si sarebbero sviluppati qui: l'origine di una pratica non si confonde con il suo significato.

In alcune pagine del suo libro Aveuglantes Lumières, Régis Debray descrive un viaggio che l'ha condotto al Cairo, in occasione di un incontro destinato a favorire il "dialogo delle civiltà". Egli constata con dispiacere che ognuno aveva preferito il calore e il conforto delle proprie convinzioni, meravigliandosi degli errori compiuti dagli altri. «Ogni opinione campa sulle proprie certezze, non senza esigere che l'altro si pieghi di fronte a esse». Così facendo, ci si inebria della propria virtù e ci si rassicura sulla pericolosità dell'avversario. «Esiste il giorno, noi, e la notte, loro. Chi oserebbe mettersi a litigare con i crociati del bene?». Inoltre, Debray si rende conto che, non potendosi riconoscere pienamente in alcuna opinione categorica, cambia parere in funzione dei suoi interlocutori. «Di fronte agli imam, mi rabbuio, muto in volteriano furioso, rinasco come combattente del libero pensiero. A Parigi, di fronte ai miei, le cui certezze mi irritano, mi giro subito dall'altra parte.» O, vedendosi attraverso gli occhi degli altri: «Agli occhi dell'ortodosso lettore del "Nouvel Obs" sono un orientale cafone, compiacente e pronto a calare le braghe davanti agli ulema, agli occhi dell'ortodosso sunnita del Cairo mi ritrovo occidentale arrogante e ostinato».

Rinunciare al ruolo di cavaliere del bene non significa considerare tutte le posizioni equivalenti. Si possono nutrire forti riserve sul film di Van Gogh e Hirsi Ali, o sull'iniziativa del giornale danese; tuttavia, non c'è dubbio che l'assassinio e le violenze collettive siano atti molto più gravi. Tuttavia, non si ha nulla da guadagnare nel presentare gli altri come nemici e gli incontri con loro come una guerra; dato che la rappresentazione modifica sempre il suo oggetto, si rischia di rafforzare il male che si voleva combattere.

Perché sia facile l'integrazione in un insieme unico, è necessario riconoscere una medesima dignità ai diversi membri della società. Sentirsi rispettati in ciò che si considera la propria identità collettiva conduce all'apertura agli altri, non alla chiusura difensiva all'interno della propria cerchia. Conosciamo bene questo principio educativo: un bambino progredisce più rapidamente con gli incoraggiamenti che con i rimproveri; gli adulti, sotto questo aspetto, non sono molto diversi. Non è sufficiente denunciare le discriminazioni rispetto alla legge e alle norme ufficiali, che si tratti della ricerca di un lavoro o di un alloggio, bisogna anche prendere delle misure positive, come incoraggiamento. È per questo motivo che è così utile vedere nel mondo politico e nei media visi e nomi capaci di evocare le minoranze del paese, dal momento che queste due sfere sono sotto l'attenzione di tutti.

Si possono immaginare misure simboliche di questo genere, che contribuiscano a valorizzare l'uguale dignità di tutti, negli ambiti più diversi della vita sociale. Non sarebbe scandaloso, per esempio, in un paese laico come la Francia, dove ci sono sei giorni festivi legati a ricorrenze cattoliche (Pasqua, Ascensione, Pentecoste, Assunzione, Ognissanti, Natale), che ce ne fosse uno legato alla seconda religione del paese, l'islam; non c'è nulla di sconvolgente se le regole della vita in comune tengono conto dell'evoluzione della popolazione. Né a proporre di insegnare più diffusamente l'arabo a scuola, non per confinarvi i bambini i cui genitori lo parlano, ma per farne una lingua come le altre. Se le donne lo chiedono veramente, perché non riservare anche degli orari non misti nelle piscine comunali: la promiscuità dei corpi nudi dei due sessi è certamente una caratteristica della cultura occidentale contemporanea, ma non è una conseguenza inviolabile specifica dei principi democratici. A tale scopo non è necessario cambiare le leggi, ma non è nemmeno sufficiente dire che ciascuno può fare ciò che vuole nella sua sfera privata: il fatto è che tra l'ambito legale e quello personale si inserisce una terza zona, quella della vita sociale, regolata da norme adottate per scelta e non per obbligo. Bisogna dunque discutere dei problemi che si pongono caso per caso.

 
 
 
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