Dieci storie di fuoriusciti da gruppi religiosi Di Chiara Bini e Patrizia Santovecchi, 2002, Avverbi edizioni, ISBN 88-87328-37-4 10,00 Euro. Dalle atmosfere esotiche dei gruppi induisti a quelle penitenziali degli integralisti cristiani, dalle sottili limitazioni sociali dei gruppi meno totalizzanti agli abusi sessuali delle sette più estreme. Anche nel nostro Paese, nel panorama più ampio dei culti consolidati, si registra da qualche anno la crescente diffusione di nuovi gruppi a carattere religioso. E non manca l'allarme per le drammatiche condizioni di vita e le situazioni di "controllo mentale" che la cronaca recente, anche giudiziaria, ha denunciato in alcune di queste realtà. Il libro riporta il racconto personale di dieci adepti a diversi gruppi. Nelle loro parole, la storia di una fede che diventa "tiranna" e il sofferto percorso per ritrovare se stessi. A cura di Chiara Bini, attualmente giornalista alla Nazione, che da anni segue l'evoluzione dei nuovi gruppi religiosi, e Patrizia Santovecchi, uscita alcuni anni fa da un gruppo religioso e oggi impegnata nel sostegno ai fuoriusciti e alle loro famiglie. Pagg. 53-60 Abbassai il parasole e mi guardai nello specchietto a mezzaluna. Fu un gesto automatico, non so perché lo avessi fatto. Non mi guardavo più allo specchio da mesi, tanto meno in quello di un'auto. Nel piccolo pezzetto di vetro scorsi due occhi, un naso, un labbro superiore. Di chi erano quei lineamenti? Miei? Non li riconoscevo. La donna riflessa là sopra non ero io. La sensazione fu netta e fulminante. E come un fulmine svanì, o almeno così mi sembrò. Il mio amico continuava a guidare in silenzio; lo stava facendo già da alcune ore, fendendo l'ammasso grigio opaco: l'asfalto, il cielo, l'aria. Erano diventate grigie anche le poche parole che ci eravamo scambiati dal momento della partenza da Copenaghen, dove avevamo trascorso quattro settimane presso la sede della Sea Organization, l'organizzazione avanzata di Scientology. Eppure non era solo stanchezza fisica quella strana spossatezza che gravava dentro l'abitacolo, non era neppure malinconia, o insoddisfazione. Era qualcosa di molto più grande, qualcosa che sfuggiva alla comprensione. Era uno sgomento tanto pesante a cui soltanto adesso so dare un nome: era il vuoto. Eccesso di vuoto. All'interno, all'esterno, il vuoto si era preso ogni cosa e l'aveva riempita. Terrorizzata, mi accorsi che si era preso anche me. Come una bomba, era scoppiato proprio in quel momento, su quella maledetta autostrada che mi stava riportando indietro, a casa, dove ero convinta non mi avrebbe lasciato. Sarebbe diventato il mio nuovo compagno. E io non lo volevo. I chilometri si macinavano da soli sul nastro diritto. Una monotonia insopportabile, eppure avrei voluto che non finissero mai. Finché sei in viaggio è come se tu fossi sospesa fra ciò che hai appena lasciato e ciò che ti aspetta. E non puoi fare nulla. L'idea dell'impossibilità di agire per altre tre ore, come minimo, mi tranquillizzò. Ma il surrogato di quiete che avevo appena creato durò poco. Alla desolante piattezza del paesaggio si erano sostituite da un po' le montagne e con esse arrivarono le gallerie. I fari si accesero non appena ci infilammo nella prima. Il tunnel lunghissimo - non si vedeva l'uscita e neppure s'intuiva - gettò sull'auto una coperta di luce gialla. «Apri il finestrino» chiesi senza tradire un tremito nella voce. «Sei pazza? Da quando in qua si aprono i finestrini in galleria? Hai un'idea della valanga di smog che c'è qui sotto?» Lo sapevo sì dello smog, non sono mica scema, ma io cominciavo a non respirare. A ogni istante il fiato diventava più corto, non mi bastava, mentre un senso d'oppressione cresceva insieme al sudore. «Voglio uscire, fammi uscire. Non resisto, soffoco». Come se fosse stato possibile uscire. Riccardo cominciò ad impaurirsi, con un occhio guardava la strada e con l'altro me, accasciata sul sedile, che con una mano mi premevo lo sterno. «Stai calma, non appena fuori di qui ci fermiamo. Ma cosa ti senti?». Cosa mi sentivo? Non mi sentivo. Il mio corpo non esisteva più, la mente era tanto congestionata che a un tratto credevo stesse evaporando. La paura invece, potevo percepire solo quella, aveva impacchettato pensieri e membra, aveva campo libero e stava diventando panico. Ero in preda al mio primo attacco di panico, allora sconosciuto, in seguito familiare come il senso della fame. «Ho appena superato il livello 0T3, sono soddisfatta, devo essere soddisfatta. È un target importante». Ero un "Thetan Operante" che a Copenaghen aveva appena superato il muro del fuoco. Questo voleva dire essere diventata un individuo ancora più consapevole e libero da condizionamenti. Me lo stavo ripetendo quasi al parossismo. Il tunnel intanto proseguiva e con quello la certezza di essere una sepolta viva. Ad un tratto, come naturale, il buio finì. Ma io neppure me ne resi conto. Se solo il vento che adesso passava dal finestrino mi avesse fatto volare via. Lontano dalla confusione, dai dubbi, dal disagio. Stavo male. Dopo dieci anni quella era la prima volta che riuscivo a dirmelo senza nascondermi. Stavo male, sì: ma ammetterlo rendeva la sofferenza un gigante tiranno, tanto urgente quanto insopprimibile. Tentai con tutte le mie forze di ripetermi che doveva essere solo stanchezza, un momento passeggero: io ero "un auditor", avevo acquistato potenzialità che a molti erano precluse. Incapace di gestire tutto il malessere che mi invadeva continuai a lottare, non potevo cedere. Mi aggrappavo alle mie conoscenze, convinta che in quelle avrei trovato la chiave per riappropriarmi della stabilità che con Scientology pensavo di aver conquistato. Per quanto mi opponessi, l'angoscia non allentò la morsa. Stremata, infine mi arresi. Il mostro era lì, invincibile. Se non potevo più negarlo, dovevo abbracciarlo. E allora via, Lory, vai fino in fondo. Non feci in tempo a formulare la decisione, che puntuale arrivò il pensiero di mio figlio. Un tarlo che da anni dentro di me scavava cunicoli profondi. «Resterai con la zia. La mamma in questo momento non può dedicarti tutto il tempo che vorrebbe. Con lei starai meglio. E poi, è solo per poco». Avevo pronunciato quella frase quasi dieci anni prima. E il mio Daniele invece era sempre là, con la zia. Un giovanotto ormai, che vedeva la sua mamma tutti i giorni, ma che si addormentava e si svegliava in un letto che non era quello di casa nostra. L'avevo lasciato. L'avevo dovuto fare. Perché? Cosa poteva essere più forte di due occhi increduli che ti chiedono: «Perché mamma?». Perché ero stata costretta da una forza superiore. Allora ero convinta che sarebbe stato il meglio per lui, che di lì a breve avrebbe ricominciato ad avere una madre più felice, capace di dargli tutta la serenità che a quel tempo non riuscivo ad avere e a trasmettere. Già gli era capitata la sfortuna di vedere i genitori separarsi e di crescere con un padre lontano, quasi inesistente. Aveva già sofferto. Dopo aver fatto il mio percorso in Scientology, ero sicura, sarebbe stato tutto diverso. Io sarei tornata da lui cambiata, più in gamba. Che balla. La realtà era un'altra: avevo costretto mio figlio a subire anche la mia assenza. E adesso, dov'era la super mamma padrona di sé e della vita? E soprattutto, dove trovavo il coraggio di farmi vedere da lui in quelle condizioni? Mia cognata aveva accettato quella sorta di affidamento come un dono. Non le pareva vero di avere suo nipote tutto per sé. E se da un lato questo mi smuoveva repressi moti di gelosia, dall'altro mi faceva esse-re certa che mio figlio avrebbe avuto tutto l'amore, le cure e l'attenzio-ne di cui aveva bisogno. Solo una simile riflessione consolatoria, quel giorno che lo abbracciai stretto stretto, mi dette il modo di attraversare la porta della casa di mia cognata e lasciarmela alle spalle. «Va un po' meglio adesso?» La domanda di Riccardo mi fece trasalire. Avevo gli occhi chiusi, ma lui aveva capito che non dormivo. «Sì un po' meglio. Forse». Inseguire il caos dei ricordi mi aiutava a dimenticare lo stato presente di allucinata coscienza di quello che sentivo di essere: un niente. Anzi peggio, una complessa architettura di niente. Richiusi gli occhi. Mi rividi mentre discutevo con il mio bambino di dieci anni. «No, non ci vado». Le urla le sentivo ancora. Di certo più forti di allora, quando mi gridava i suoi no con tutta la veemenza della ribellione. Ma io non cedevo. Mi ero messa in testa che doveva "fare Scientology" anche lui. Me lo ero imposto come un dovere nei miei e soprattutto nei suoi confronti. Così pretendevo che lui partecipasse ai corsi di base. E ogni volta era una lotta. Presa com'ero dal desiderio che anche mio figlio diventasse un "essere libero" e cieca riguardo a tutto il resto, accettavo persino l'idea che al ritorno dagli incontri facesse un tratto di metropolitana da solo; a quell'età. Ma il problema in quel momento era del tutto secondario di fronte alla possibilità di vederlo raggiungere "gradi sempre più elevati di consapevolezza", di vederlo "guarire dalle sue aberrazioni", cioè le deviazioni del pensiero o del comportamento, di dargli la possibilità di migliorare. Il senso di colpa aveva molto gioco, in quanto sapevo che molti dei suoi malesseri erano causati dalle mie scelte di vita e dai miei problemi. Quelle persone però - come lui chiamava gli istruttori dei corsi di base - non gli piacevano, non lo facevano sentire a suo agio. Insomma non voleva proprio saperne. E un giorno la fece grossa: durante l'ora di quel corso al quale l'avevo costretto ad andare, sputò in faccia all'istruttore. L'umiliazione che provai mi indusse a vergognarmi di mio figlio. Che strano, quel ricordo adesso mi faceva vergognare di me stessa. Vergogna, un sentimenti da troppo tempo messo a tacere. Ora lo sentivo assalirmi lasciandomi in bocca il sapore del fiele. Come avevo potuto ridurmi così. Ancora una volta i ricordi. Eravamo negli anni Ottanta, la vita scorreva monotona, un matrimonio fallito sulle spalle, un figlio ancora da crescere. Trent'anni appena, ma pesavano, e molto. Insoddisfatta, inquieta, mi trascinavo tra il lavoro e Daniele, portandomi dentro quel sottile dolore che solo la convinzione di un completo fallimento può dare. Un giorno, non ricordo come, mi trovai fra le mani un volantino, l'invito era suadente, almeno così allora mi sembrò. "Conosci te stesso" recitava. Duecento domande mi avrebbero rivelato chi ero interiormente. Decisi che valeva la pena provare. In fondo, pensai, cos'ho da perdere? Mi recai alla sede e mi sottoposi al test. Il responso mi arrivò severo. Lei è una persona instabile e poco causativa. Insomma ero infelice perché non potevo esprimere il mio potenziale. Ma grazie ai corsi di Scientology avrei trovato l'aiuto necessario per la vera realizzazione nella vita. Questa speranza mise a tacere la sensazione di disagio che ebbi al primo impatto con quell'ambiente, troppo americano ed efficiente. Riuscivo a pensare solo che finalmente avrei trovato la formula giusta per raggiungere la pace tanto desiderata. Quindi poco importava come erano le persone se veramente potevano offrirmi tutto questo. Iniziai il primo corso, "Anatomia della mente umana". Venti lezioni dove appresi perché l'uomo vive male e soffre. La ragione doveva ricercarsi nel fatto che nessuno, a parte Scientology, è in grado di insegnare quale sia il vero potenziale dell'essere umano. E, cosa più importante, come fare per ottenerlo. Durante il corso mi sentivo sempre più elettrizzata, ogni lezione equivaleva a una nuova e incredibile scoperta. Io non ero quella che da sempre avevo creduto di essere ma un "thetan, ossia un essere operante, consapevole, causa su materia e su pensiero, ma per colpa delle mie aberrazioni, eventi traumatici di tutta l'esistenza, avevo perso la consapevolezza e l'abilità". Dunque ero condannata ad essere intrappolata in un corpo. La catena interminabile di vite passate non mi aveva affatto purificato, ma deteriorato. Solo grazie a questa scoperta potevo ora decidere di spezzare la "spirale discendente" e raggiungere la libertà totale. L'ambiente intorno mi appariva sempre più rassicurante, le persone si mostravano molto disponibili e sempre pronte a raccontarmi quanto fosse bello fare Scientology e quanto la loro vita fosse cambiata in meglio: «Mi sembra di aver cercato da un'eternità quello che so adesso. Mi sento in pace, sono tranquillo e sicuro»... «Ho appreso la verità e la verità rende veramente liberi-»…«Ho perduto qualsiasi autoinvalidazione, una cosa che prima ritenevo impossibile». Parole che erano come musica per le mie orecchie. A poco a poco anche la tanto provvidenziale quanto non ascoltata sensazione di disagio sparì, per lasciar posto a una parvenza di gioia dettata dal fascino di una visione nuova della vita. Per me, che avevo sempre rifiutato qualsiasi concetto di credo religioso e che temevo la morte al punto di desiderarla, scoprire che la mia esistenza non era poi così limitata era motivo di forte attrazione. Ero pronta a investire tutte le mie risorse, emotive ed economiche, in questa nuova scienza. Perché fare Scientology non era seguire ciecamente una fede e questo doveva essere molto chiaro a tutti: Scientology era un metodo scientifico sicuro, provato da molti con successo. La prospettiva di libertà e di dominio sulla realtà mi proiettò in innumerevoli corsi. Il miglioramento, quello vero, è sempre il successivo "gradino del Ponte", ci veniva ripetuto. Già, "il ponte verso l'Eternità", fatto di gradini infiniti quanto gli stessi corsi. C'è una tecnica per tutto, un costo per ogni tecnica e il corso sale man mano che si salgono i gradini del Ponte. Volevo diventare "auditor". Si era accesa in me la voglia spasmodica di studiare, di conoscere sempre di più, di cercare di fare il percorso più in fretta possibile. Una sorta di febbre incontrollabile, alimentata anche dalle parole di chi era già ben addentro alla materia. Oltre che migliorare se stessi, essere auditor significava aiutare gli altri: meraviglioso. Bastarono solo pochi mesi per convincermi che questa era la scommessa più grande della mia vita e che quindi non c'era tempo da perdere. Mi licenziai dal mio lavoro d'ufficio ed entrai a tempo pieno nell'organizzazione come staff. Non ci avevo pensato troppo su al momento di firmare le mie dimissioni. Che gli amici e i familiari avessero tentato in ogni modo di dissuadermi da un passo che ritenevano folle era del tutto irrilevante. Loro non potevano capire. Solo io sapevo che quel cammino mi avrebbe cambiato la vita, che dovevo perseguirlo con impegno e dedizione totali perché desse i frutti sperati. Il lavoro mi avrebbe distratto e distolto dall'obiettivo. Quando decido di dedicarmi a qualcosa, lo faccio sempre al massimo. Così non avevo alternativa: dovevo buttarmi anima e corpo nella nuova avventura. Di lì a poco arrivò anche il compromesso più difficile: il distacco da mio figlio. Lavoravo per Scientology dalle dodici alle quindici ore al giorno, sei giorni la settimana, con una paga che andava dalle duecentocinquanta alle trecentomila lire al mese. Una miseria, ma tanto avevo la liquidazione e poi sarebbe stato per poco, mi ripetevo, come per esorcizzare futuro. Presto sarei stata così abile e libera da fare quello che volevo. Non badavo ad altro che a fare bene il mio lavoro. Quanto tempo passato in quello stanzino, un bugigattolo in cui entravano a malapena un tavolino e due sedie. Le persone si susseguivano una dopo l'altra senza avere il tempo neppure di un breve intervallo, io le ricevevo, applicavo con loro la tecnica che avevo studiato e mettevo per iscritto tutto quello che mi dicevano. Spesso mi ritrovavo alla sera senza neanche accorgermene; la testa mi doleva, le palpebre si erano fatte pesanti e davanti agli occhi continuava a comparirmi ossessiva l'immagine dell'ago che spazzava il quadrante dell'elettrometro in tutti i suoi movimenti, ognuno dei quali aveva un preciso nome e significato. Lo strumento era stato realizzato appositamente per aiutare l'individuo a localizzare le aree di angoscia, sofferenza o dolore. All'auditor il compito di localizzare queste aree, aiutare la persona a riconoscerle e attraverso la tecnica risolverle. Stando a contatto con gli altri dello staff avevo notato che non erano felici e soddisfatti come sostenevano e che continuavano a macerarsi nei loro problemi. Ma in cuor mio attribuivo certi malesseri a loro debolezze e incapacità, mentre io mi convincevo che impegnandomi, e mettendocela tutta, ce l'avrei fatta. Ero talmente motivata da accettare ogni sacrificio pur di imparare il più possibile. E infatti, diventai presto una persona qualificata e stimata. A volte, molto di rado, mi succedeva di fermarmi a fare mente locale su come stava andando avanti la mia vita: completamente assorbita in Scientology. Nessun pensiero, nessuna lettura, nessun amico al di fuori dell'organizzazione. Solo Daniele, pur essendo estraneo al sistema, poteva occupare il mio spazio mentale e affettivo. Lo consentivo solo a lui, che di corsa raggiungevo e portavo via con me durante l'unico giorno libero della settimana, quando non mi veniva tolto. Poi mi rituffavo nella corsa frenetica. Target dopo target. Obiettivo dopo obiettivo. C'erano le statistiche in cui ognuno quantificava il proprio lavoro, sia come operatore che come studente. Come auditor la statistica quantificava le ore ben fatte. Più erano le ore ben fatte e maggiori diventavano le possibilità di studiare o di ricevere quei tanto desiderati procedimenti che rendevano liberi. E ogni scalino compiuto doveva essere riconosciuto da un'attestazione scritta, a prova del risultato raggiunto. Se il miglioramento non veniva suffragato, si ricominciava da capo oppure si subiva una cosiddetta "correzione". Ormai non avevo più soldi. Avevo spolpato i miei risparmi di dieci anni attingendo a una liquidazione sostanziosa sì, ma certo non infinita. «Siamo arrivati Lory». L'annuncio di Riccardo mentre spengeva il motore suonò come un gong. Basta, è finita. Sono tornata a casa e tutto deve ricominciare da capo. Ci sono istanti che, nella loro infinitesimale durata, sono potenti co-me ere. Capaci di modificare paesaggi, di far estinguere animali e farne nascere di nuovi. Ci sono istanti che valgono una vita. Il momento in cui scesi dall'auto e posai il piede in terra davanti casa fu uno di quelli. Il primo germe del cambiamento, il più importante, si era già insinuato. Me ne sarei resa conto solo in seguito, dopo averlo alimentato e fatto crescere giusto il tempo di renderlo forte e indistruttibile. La Lory che era ripartita da Copenaghen non c'era più. La mia nuova strada ha preso il via quel giorno, anzi, quella sera. La via del ritorno da un viaggio non di dodici ore ma di anni. Il bilancio era davanti ai miei occhi: una donna con i denti in malora perché il dentista richiedeva troppo tempo e soprattutto troppo denaro; che doveva fare i salti mortali per mettere insieme il pranzo con la cena, che spesso saltava. Una donna sola, senza un compagno, con un figlio sempre più lontano. Ero diventata incapace di risolvere qualsiasi questione pratica. Io, che credevo di aver raggiunto livelli di libertà fuori dal comune, di essere priva di condizionamenti, non avevo neppure di che sostentarmi. Ed ero prigioniera di una serie di esigenze sempre più pressanti all'interno dell'organizzazione. La decisione di uscire è arrivata quasi da sola, spinta da un impeto che gridava «Non così! Non è questa la strada!». A quel punto ero ormai pronta ad affrontare tutto: accuse di ogni genere e i tentativi di farmi confessare cose che non avevo fatto, come l'aver alterato la tecnologia. Sono poi arrivate le minacce, che in quel momento mi facevano male più di ogni altra cosa: non poter più "fare Scientology" per l'eternità. Quelle parole sono risuonate dentro di me come una condanna per la vita eterna. E pensare che avevo firmato un contratto che mi vincolava a Scientology per due miliardi di anni. Mi è stato detto che tutto quello che avevo raccontato di me nelle varie sedute di "auditing", coperto rigorosamente da segreto professionale, sarebbe stato reso pubblico. Per una come me, che aveva creduto così tanto e Dato così tanto, è stata dura dover vedere l'altra faccia della medaglia. Colpi d'ariete sferrati su un fortino invincibile, gli attacchi sono caduti nel vuoto. Le telefonate insistenti sono continuate per giorni. Erano fatte dai miei amici più cari o influenti che usavano parole gentili per dirmi quanto fossi in gamba, che una come me non poteva arrendersi. Oppure minacce di vario genere. La tecnica del bastone e della carota. Solo in un secondo tempo sono stata in grado di scoprire chi era in buona fede e chi no. Assediata, subissata, alla fine sono stata costretta a chiudermi in casa e non rispondere più a nessuno. Ho trascorso ore di angoscia. Ogni squillo, ogni campanello, richiami ossessivi, suonavano come una tortura. Ero sola, con dieci anni della mia vita che avrei voluto chiamare passato, con un presente affollato di fantasmi e con futuro, credevo, inesistente. Mi sentivo una preda spaurita e braccata, al punto che un giorno mi sono fatta prestare dei soldi, ho preso mio figlio e me ne sono andata via, lontano. La cosa più importante era recuperare il rapporto con lui. Non ho recuperato il rapporto con me stessa e con mio figlio subito, c'è voluto molto tempo perché la mia mente tornasse a essere davvero mia. I risultati li sto vedendo solo ora, ad anni di distanza da quei giorni che, per mia fortuna, sono passati tanto da poterli raccontare. Il ricordo invece mi risuona ancora come una umiliazione: «Come ho potuto?». Poi sorrido e penso che questa esperienza è parte della mia vita e non la voglio dimenticare: forse, chissà, a qualcuno potrà servire. |
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