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Credere è reato? Libertà religiosa nello Stato laico e nella società aperta

Credere è reato? E' questa la domanda che si pone una recente collettanea (2012) curata dal sociologo Luigi Berzano in merito alla incessante proposta di reintrodurre nel nostro ordinamento penale il reato di plagio/manipolazione mentale.

Volume edito dalla Edizioni Messaggero Padova, ISNB 978-88-250-2842-3, euro 24.

 
A novembre 2012 è uscito l'interessante volume curato da Luigi Berzano, ordinario di sociologia dei processi culturali all'Università di Torino, che raccoglie i contributi di 23 tra sociologi, giuristi, psicologi, antropologi, filosofi e dirigenti di Nuovi Movimenti Religiosi in merito alle proposte di legge per reintrodurre il reato di plagio/manipolazione mentale che si sono succedute fin dalla sua storica abrogazione nel 1981.

I media sono sempre pronti ad accogliere la preoccupazione e l'allarme generato da una manciata di micro associazioni "antisette", quei circoli privati che la Squadra Antisette della Polizia di Stato e la sua dirigente Dott.sa Maria Carla Bocchino ritengono essere delle fonti attendibili e privilegiate, nonostante gli errori di valutazione fatti in passato che hanno comportato abusi giudiziari e di altra natura agli ingiustamente presi di mira. Televisioni, giornali, pseudo-inchieste giornalistiche danno molto risalto a un presunto "dilagare" di "sette sataniche, pseudo-religiose e psicosette" che costituirebbero un vero e proprio "cancro sociale", cioè un imminente quanto concreto pericolo per l'individuo, la famiglia e la società. A loro modo di vedere, un mezzo utile e necessario per contrastare questo presunto "dilagare" sarebbe il ripristino del reato di plagio (nella sua nuova formulazione di "manipolazione mentale").

A prima vista, e volendosi accontentare di una descrizione fortemente emotiva, parziale e pregiudizievole di una realtà molto più complessa, si potrebbe essere tentati di accogliere quelle proposte come giuste e sacrosante. Ma il reato di plagio fu abrogato per una serie di motivi molto seri, primo fra tutti la sua incostituzionalità. Le successive proposte di reintrodurlo non hanno risolto quei gravi problemi, esponendo perciò ogni singolo cittadino italiano ai potenziali e gravi pericoli così ben esplicitati nella collettanea curata da Berzano.

Ho raccolto nelle pagine che seguono alcuni estratti degli interventi che - per una serie di motivi - mi sono parsi più interessanti, ma consiglio vivamente la lettura integrale del libro a chiunque voglia andare oltre la spinta emotiva suscitata dal presunto "dilagare delle sette".

L'auspicio è che i sostenitori della reintroduzione del plagio scendano nell'arena della discussione scientifica e contestino con gli strumenti delle scienze sociali - non con quelli dell'emotività - le conclusioni a cui sono giunti gli autori di Credere è Reato?

Simonetta Po



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La lingua biforcuta della legge

Mauro Mellini (pagg. 121-132)

Libertà, suoi limiti e principio di legalità: ossequio formale ed elusione di tale principio

Il limite della libertà individuale rappresentato dal rispetto della libertà altrui, e i conseguenti interventi repressivi contro l'infrazione di tale limite, comportano l'affidamento, in via prioritaria, della discriminante relativa al principio di legalità. Se si prescinde da questo principio, la proposizione stessa per cui l'estensione della libertà è segnata solo dalla libertà altrui e dalla necessità di assicurarvi adeguate protezioni, perde qualsiasi senso e valore.

Analogo problema si pone quando si prospetti il limite della «disponibilità» di certe espressioni della libertà individuale da parte del titolare di tali diritti e, di conseguenza, del limite imposto a ciascuno per quanto riguarda il profitto da trarre dalla disposizione che altri faccia dei propri diritti di libertà e ancora, del diritto di adoperarsi per conseguire tale disponibilità della libertà altrui.

Il principio di legalità (nullum crimen, nulla pena sine praevia lege penali) può dunque considerarsi esso stesso un cardine di ogni ordinamento ispirato a libertà.

Del resto il principio opposto, il cosiddetto «diritto libero», una delle teorie fondamentali dell'ordinamento nazista (e per qualche tempo, in modo intermittente, di quello sovietico) è stato additato, giustamente, come incompatibile e distruttivo della stessa civiltà giuridica occidentale. Ebbe il coraggio di sostenerlo, con grande fermezza e chiarezza, nella memorabile conferenza tenuta a Firenze il 15 gennaio 1940, Piero Calamandrei.

Oggi si può dire che il principio di legalità è affermato solennemente nella Costituzione della nostra Repubblica (art. 25, comma II).

È certo però che, se più nessuno sembra contestare questo principio per sostenerne altri contrapposti, accade più spesso che in passato che, di fatto, esso sia eluso e aggirato, soprattutto con l'introduzione di «false» fattispecie penali. Mi riferisco a norme repressive in cui le condotte considerate, anziché essere oggetto di una chiara individuazione e delimitazione, capace di porre discriminanti certe tra ciò che deve essere represso e punito e ciò che deve invece essere lasciato alla libertà dei singoli, vengono descritte in termini equivoci, tali da produrre incertezza relativamente a tale limite, rendendo al contempo arbitrario l'intervento punitivo, e aleatorio, quindi, l'esercizio del diritto di libertà.

La questione del reato di plagio, così come si presentò ai giudici della Consulta nel 1981, e la pretesa degli autori della proposta di legge attualmente assegnata alla Commissione Giustizia del Senato della Repubblica di assoggettare a repressione penale le attività definite di «manipolazione mentale» riportano in primo piano un problema fondamentale. Si tratta di decidere se le descrizioni delle condotte allora vietate dall'art. 603 c.p., e oggi destinate a essere considerate punibili in caso di approvazione della legge sulla «manipolazione mentale», sono idonee a segnare limiti certi tra il lecito e l'illecito. Se, cioè, sono in grado di assegnare alle condotte, cui dovrebbe conseguire l'intervento punitivo, connotazioni tali da rappresentare vere «fattispecie penali oggettive e soggettive», connotazioni reali e inconfondibili non suscettibili di interpretazioni tali da lasciare, nella loro ampiezza e, magari, ambivalenza, poteri arbitrari all'interprete.

Il «principio di legalità», dunque, vieta il ricorso a quelle che possono ben definirsi «fattispecie penali apparenti», cioè a quei divieti, con la conseguente comminatoria di una pena, che non circoscrivono con esattezza e certezza le condotte che possono e devono essere punite, ma costituiscono ipotesi «aperte» di punibilità. In altre parole: il principio di legalità non ammette che si ricorra a «cambiali in bianco». La praevia lege poenali deve essere tale che ogni fatto, ogni condotta che abbia, successivamente alla sua emanazione, a verificarsi, possa senz'altro riconoscersi come consentita o, invece, vietata e repressa dalla legge stessa.


La sentenza 96/1981 della Consulta: il plagio e il vizio di non tassatività della norma

Esaminando la fattispecie propria dell'art. 603 (reato di plagio) del Codice penale del 1930, la Corte costituzionale, con la sentenza 8-6-1981 n. 96, non si è proposta specificamente di fornire la definizione della norma penale che, per sua struttura, non sia idonea a soddisfare il principio di legalità, realizzando una sufficiente specificità del divieto, né ha usato il termine «fattispecie penale apparente» (espressione venuta in uso solo successivamente alla sentenza) per definire le norme che tale idoneità non possiedono. Ha invece prodotto un esame ampio e organico della norma oggetto del giudizio, con riferimento specifico alla vacuità dell'ipotesi considerata in presenza di una «non verificabile effettuazione e risultato» della condotta considerata. Nel giudizio sottoposto alla Corte, infatti, si discuteva della reale possibilità che, dalla condotta di taluno, concretizzata in attività psichica, possa effettivamente conseguire uno stato di reale assoggettamento e dipendenza totale del soggetto «plagiato», così che, di conseguenza, non si potesse dedurne che cosa la legge intendesse realmente incriminare come condotta definita con riferimento a un tale effetto.

Tuttavia, la motivazione della sentenza 96/1981 (estensore Volterra) non intende affatto circoscrivere a quanto da essa più specificamente considerato per il caso di specie l'ipotesi di «indeterminatezza» e mancanza di tassatività della norma penale, che ne comporti il contrasto con il principio consacrato nell'art. 25 della costituzione, indicando chiaramente il vizio riscontrato nella struttura dell'art. 603 c.p. come rientrante nella più ampia categoria di quelli affetti dalla «mancanza di tassatività» per difetto di determinatezza della descrizione della condotta incriminata. Categoria inidonea a soddisfare il precetto dell'art. 25 della costituzione.


Le «fattispecie penali apparenti» mine vaganti contro il principio di legalità. Un andazzo legislativo pericoloso

Occorre dire che la non corrispondenza delle norme penali venute in essere nel trentennio che ci separa dalla sentenza sul plagio, ai canoni che, secondo la sentenza stessa, sono tali da garantire l'osservanza del principio costituzionale suddetto, è fenomeno assai rilevante, sia per estensione sia per frequenza dei casi che possono essere lamentati. E questo per motivi diversi. A una vera e propria crisi di cultura e di linguaggio giuridico, si aggiunge, infatti, il sempre più frequente ricorso ad ambiguità espressive come espediente per superare - nell'illusione di comporle - attraverso falsi compromessi, le difficoltà che insorgono tra le varie forze politiche nel processo di produzione legislativa. E questa è solo una delle più rilevanti (e sconcertanti) ragioni del fenomeno.

Quel che è certo è che l'obiettivo di tutto il movimento intervenuto dopo l'abrogazione per incostituzionalità del reato di plagio era ed è l'emanazione di nuove norme penali che sopperiscano alle pretese esigenze di «protezione» da condotte sostanzialmente identiche a quelle previste dalla norma abrogata. E tuttavia, questo movimento, anziché cercare di evitare contrasti con il principio di legalità definito dalla Corte costituzionale, e con il principio di determinatezza e tassatività della legge penale suo corollario, ha tentato, al più, di eluderlo e aggirarlo. Va anche detto che non solo il «caso Braibanti», ma la stessa vicenda che fu spunto del giudizio di incostituzionalità (caso Grasso) avevano finito per fornire al «plagio», fino ad allora sconosciuto, oltre che non applicato come reato, una pubblicità considerevole anche nel linguaggio corrente. «Plagiata» si disse da allora la ragazza innamorata di un giovane considerato un «cattivo partito»; «plagiato» il testatore che aveva deluso taluni congiunti, favorendone altri nelle sue ultime volontà. E così via.


Il riferimento alle «sette» come pretesa individuazione della condotta incriminabile

Si scoprì allora che le «sette» erano organizzazioni di plagiatori. Fino ad allora (e fino a non molto prima), si cercava di colpire quelle che venivano definite «sette» per se stesse e per le «falsità» che professavano, nonché per il carattere «contrario all'ordine pubblico». Le leggi di Pubblica Sicurezza del regime fascista erano, infatti, state dure a morire e avevano lasciato «vuoto» e rimpianti non solo nelle pretese di ambienti tradizionalisti e integralisti cattolici.

In un periodo in cui la produzione legislativa penalistica è stata caratterizzata da un'incontenibile predilezione per i reati associativi, l'attenzione dei «nostalgici del plagio» si è, infatti, spostata sulle «sette», denominazione spregiativa attribuita alle confessioni e comunità religiose minoritarie (da parte cattolica, per lungo tempo, è stata abituale una identificazione tra Protestantesimo e «sette»). L'attenzione si è concentrata in particolare su certi gruppi individuati come dediti alla «manipolazione mentale», asseritamente usata a fine di proselitismo e addirittura come fondamento della coesione del gruppo.

Allo stesso tempo, il ruolo della «setta» e il contesto associativo venivano sempre più chiaramente indicati come strumento tipico della «manipolazione mentale». Talvolta erano anche elencati come elementi tipici della condotta da includere nelle «auspicate» norme repressive, per assicurare la tipicità delle fattispecie e «superare» l'impasse provocata dalla pronunzia della Corte e dall'affermazione di principio in ordine all'inadeguatezza di altri elementi definitori.


I «sostitutivi» del reato di plagio messi in atto dai suoi «nostalgici»

Nel periodo di tempo considerato, del resto, la «campagna» contro le «sette» - visto che di campagna, piuttosto che di «giurisprudenza», è opportuno parlare -, nonostante il continuo alludere alla necessità di una norma che sopperisse al «vuoto» asseritamente lasciato dalla declaratoria di incostituzionalità dell'art. 603 c.p. (plagio), si fece ampio ricorso alla norma relativa alla circonvenzione di incapace (643 c.p.), spesso forzandone l'architettura. Nel reato furono cioè incorporate anche quelle condotte dirette a provocare (anziché ad approfittare di) una deficienza, appunto attraverso la «manipolazione mentale», del soggetto passivo. Provocare cioè quello stato di menomazione di cui si intravedeva l'approfittamento a fini di frode.

Occorre anche sottolineare che questa attività repressiva delle «sette» - che diede luogo a processi contro la Società degli Scientology, contro il gruppo di psicanalisti seguaci di A. Verdiglione, ecc., e in qualche misura, contro i Testimoni di Geova - anziché cercare di «prendere le distanze» dal precedente del plagio (cioè, in pratica, come aveva sottolineato la stessa Corte costituzionale) dalle connotazioni del caso Braibanti, ne fece apertamente un punto di riferimento. Negli ambienti «anti-sette» erano frequenti gli spunti polemici contro l'intervenuta abrogazione della norma applicata contro il professore di Fiorenzuola d'Arda in quella solitaria sentenza, abrogazione intervenuta per declaratoria di incostituzionalità. [...]


I giri di parole della proposta al Senato sulla manipolazione mentale

Con il disegno di legge che giace in Commissione Giustizia al Senato, i nostalgici del plagio sembra si siano voluti scrollare di dosso gli schemi, per così dire, di ripiego, dietro i quali hanno operato e battagliato per anni. In primo piano c'è adesso la fattispecie del «nuovo reato di plagio», con riferimento esplicito sia all'intervento delle «sette» (ma senza, come vedremo, la tentazione del ricorso necessario a un'ipotesi associativa) sia alla finalità di profitto, ritornando quindi allo schema del «plagio», per così dire, originale. I «paletti» posti dalla Corte costituzionale e il precetto di specificità della norma incriminatrice vengono aggirati tramite una serie di virtuosismi verbali privi di effettivo significato e di capacità di reale definizione e delimitazione di una condotta da considerare incriminata.

Si può dire che i proponenti del disegno di legge presentato al Senato si sono preoccupati di superare i motivi di incostituzionalità, rilevati dalla Corte nell'abrogato art. 603 c.p., tramite una modesta, ma complicata, modifica, anzitutto, dell'«evento» preso in considerazione come finalità e prodotto della condotta incriminata, che nell'art. 603 consisteva nell'effetto di «totale stato di soggezione», mentre nel disegno in questione (in cui il reato si configura come «di evento», con le ulteriori conseguenze di cui si dirà in seguito) l'effetto della condotta consistente nel «porre taluno in uno stato di soggezione continuativa tale da escludere o limitare grandemente la libertà di autodeterminazione».

Mentre è singolare e significativo l'ampio giro di parole per dire la stessa cosa della norma cancellata dalla Corte, la novità dovrebbe consistere nell'aggiunta della «soggezione», oltreché «continuativa», non totale, ma «rilevante», presa in considerazione come evento tale da comportare la consumazione del reato. Che poi vi sia differenza tra «soggezione totale» e «soggezione continuativa» tale da escludere (o limitare grandemente) la libertà di autodeterminazione, è cosa che non può seriamente sostenersi.

Vi è poi una specificazione, almeno apparente, dei mezzi con cui l'evento in questione deve essere procurato (l'articolo 603 non specificava i mezzi con i quali l'assoggettamento doveva essere conseguito).

Questi mezzi consisterebbero in «tecniche di condizionamento della personalità e di suggestione [...] con mezzi materiali o psicologici».

Fraseologia sovrabbondante, che peraltro non segna affatto un discrimine rispetto ad attività universalmente considerate lecite e socialmente utili. Che significa, infatti, «condizionamento della personalità»? È tale anche l'insegnamento, l'educazione (e la rieducazione del condannato previsto dall'art. 27 della Costituzione) e anche l'ambiente che circonda il soggetto e concorre a indirizzarne in vario modo l'indole e le condotte. I mezzi così vagamente definiti potrebbero, con non minore «puntualità», essere indicati con il termine «mezzi idonei».

Né maggiore chiarezza e concludenza può riscontrarsi nel riferimento alle «tecniche» usate per tale condizionamento. La pedagogia è la scienza di tali tecniche. Il «metodo Montessori» è anch'esso una «tecnica di condizionamento», così come e lo è la regolamentazione dei seminari o delle scuole militari, dato che ogni condizionamento o «assoggettamento» esige, per essere attuato, delle «tecniche».

Lo stesso titolo del nuovo reato (art. 613 bis «Manipolazione mentale») è, almeno al fine che ci occupa, quello cioè della tassatività e determinatezza della fattispecie penale, equivoco e ambivalente. Per «manipolazione mentale», termine che ha certamente valenza negativa, in genere si intende, secondo i vocabolari, l'«adulterazione», la deformazione di un tipo o modello «genuino» e «originale». Ma la mente umana non è qualcosa di cui possa essere individuato il «modello originale» e di cui debba essere garantita la «genuinità» quasi che si tratti di un prodotto alimentare di qualità.

Si può dire quindi che l'apparente minuziosità e complessità della formulazione del nuovo reato che ci viene ammannito, si risolve, a un'analisi appena un po' più attenta, nella dissimulazione del suo carattere marcatamente elusivo.

Abbiamo detto in precedenza che il progetto in discussione evita di ricorrere alla necessità di un intervento di una «setta» per realizzare il reato. Il progetto rinunzia pure a seguire la tendenza, oramai irrefrenabile, a porre accanto a ogni reato di cui si intenda sottolineare la gravità, una parallela e corrispondente ipotesi di uno speciale reato associativo, tendenza che in pochi anni ha visto proliferare a dismisura questo genere delittuoso.

Ci sarebbe, insomma, risparmiato almeno il reato di «associazione a delinquere di stampo manipolatorio mentale» o qualcosa del genere.

E tuttavia, per valutare appieno la portata di una simile innovazione legislativa, e la gravità delle sanzioni da essa previste, con le relative ricadute sulla vulnerazione del principio di libertà, anche di religione, di associazione, ecc., il disegno presentato al Senato non è da ritenere privo di conseguenze nel campo specifico dei reati associativi.

Prevedendo un'aggravante speciale per il caso in cui il fatto sia commesso «nell'ambito di un gruppo che promuove o pratica attività finalizzate a creare o sfruttare la dipendenza psicologica o fisica» viene messo in evidenza che la qualifica di «associazione a delinquere» (che oggi dovremmo chiamare «generica») di cui all'art. 416 c.p. viene attribuita automaticamente ad associazioni che abbiano questa cattiva indole e finalità, non solo, ma addirittura che si dà per scontata la loro esistenza e per supposta una loro finalità delittuosa.

Un'ultima annotazione. Queste intromissioni potrebbero essere assai più gravi in conseguenza del fatto che il reato di «manipolazione mentale» sarebbe da considerare «reato d'evento» per il quale sarebbe pure ipotizzabile il tentativo (di produrre uno stato continuativo di soggezione, ecc.) con la conseguenza che sarebbero perseguibili, e ne sarebbero da ricercare le relative notizie, anche quelle condotte consistenti in pretese messe in atto di «tecniche di condizionamento» indipendentemente dal conseguente realizzarsi di uno stato effettivo e continuativo di soggezione...

A conclusione di tutte le considerazioni che l'analisi testuale del progetto considerato suggerisce al giurista, si deve rilevare che il vero discrimine dell'illiceità, anziché affidato a una precisa e puntuale descrizione delle condotte che dovrebbero essere oggetto della repressione penale, sarebbe in buona sostanza rappresentato dal giudizio, in sé discrezionale, dell'interprete, del poliziotto, del giudice circa la «bontà» o, invece, la «malvagità» del «condizionamento» e della «dipendenza» indotta (o tale considerata) nel soggetto passivo. Con la conseguenza che la «residua» libertà diviene «libertà di fare il bene». Concezione che è fondamento di ogni persecuzione e di ogni regime oppressivo.


Norme penali pericolose e i pericoli di un sistema processuale: la ricerca di notizie di reato e le «fattispecie penali apparenti»

Un'ulteriore considerazione va fatta in ordine, soprattutto, alle conseguenze della violazione del «principio di legalità» attraverso la formulazione di fattispecie di reato che eludano, anziché realizzarlo, il precetto di tassatività e di specificità, conseguenze relative alla portata effettiva e alle effettive garanzie dei diritti di libertà, rispetto ai quali la norma penale così viziata venga a costituire il limite.

La portata di una norma penale, in se stessa considerata e ancor più per quel che riguarda la rilevanza di vizi insiti nella sua formulazione, non può essere valutata né possono essere seriamente considerate le sue ricadute, se non si tiene in considerazione il sistema processuale al quale viene rimessa l'interpretazione e l'applicazione della norma stessa.

Noi dobbiamo preoccuparci, quindi, di ciò che di tale norma e con tale norma potrebbe esser fatto dalla giustizia del nostro Paese. Non tanto per quanto riguarda i suoi livelli «qualitativi» di efficienza, di equanimità e delle capacità personali dei magistrati, ma per quanto concerne le caratteristiche oggettive e ordinamentali della funzione giudiziaria.

Lasciamo quindi da parte per un momento i pericoli presentati, specie di fronte a norme di labile costrutto e significato, da tendenze un tempo clamorosamente teorizzate da frazioni minoritarie della Magistratura, come, ad esempio, quelle dell'«interpretazione evolutiva» delle leggi. Prendiamo invece in considerazione la singolarità del nostro ordinamento processuale, rappresentata dalla tendenza, che il codice di procedura penale del 1989 ha legittimato pienamente, di attribuire al PM funzioni di indagine non solo in presenza di notizie di reato, ma volte anche «alla ricerca di notizie di reato».

Il codice del 1989, infatti, non dà alcuna specificazione delle condizioni che rendono obbligatoria l'azione, secondo l'accezione precedente, che è poi quella data per presupposta dalla costituzione (Codice penale, art. 112), stabilendo che il P.M. compie le indagini utili all'esercizio dell'azione penale. L'azione penale, peraltro, con un vero sconvolgimento dell'architettura del processo, si considera aver inizio solo con la richiesta di rinvio a giudizio.

Si tratta di una innovazione tanto evidente rispetto al Codice del 1930 quanto poco notata e valutata da quanti tuttavia si considerano in grado di affrontare i più spinosi problemi delle devianze giudiziarie del nostro Paese.

La differenza tra un apparato giudiziario che si attiva quando «gli pervenga notizia di reato» (come recitava il Codice del 1930) e un sistema che contempla tra i suoi compiti anche la «ricerca delle notizie di reato» non è cosa da poco.

Per quanto riguarda la questione che ci interessa non è difficile immaginare quali sarebbero le intromissioni delle Procure e della Polizia giudiziaria «alla ricerca di notizie del reato di manipolazione mentale» (così vagamente e approssimativamente definito da una legge emanata secondo il progetto oggi al Senato) e, magari, di tentativi di tale incerto reato nella vita di associazioni, gruppi politici e religiosi, individui. Ne conseguirebbero intercettazioni telefoniche ambientali e altre intrusioni nella vita dei singoli e dei gruppi, ovvio portato di un'indagine giudiziaria.


Legislatori all'inseguimento dei «casi del giorno» e insensibilità per conseguenze e ricadute

È difficile che i proponenti del discusso disegno di legge oggi al Senato si siano posti questi ovvi problemi.

C'è oggi una tendenza diffusa a legiferare all'inseguimento, si può dire, del fatto del giorno, del singolo aspetto di una questione, della questione immediata che si prospetta e si dibatte su giornali e televisioni, rifuggendo dagli aspetti sistematici inerenti a essa e, di conseguenza, dalle ricadute e dalle possibili derivazioni interpretative. Questioni che puntualmente, poi, si manifestano imponendo magari nuovi e altrettanto sconnessi e parziali interventi. E così via.

Quel che è peggio è che a non porsi tali problemi saranno ancor più probabilmente quanti, non essendo proponenti di questa deplorevole iniziativa legislativa e, magari, considerandola una fastidiosa «grana» da affrontare, finiranno per regolarsi secondo i possibili umori espressi in qualche «sondaggio di opinione».

Questo sembra essere l'orizzonte culturale dei nostri attuali legislatori.



Manipolazione mentale e libertà

Fabrizio D'Agostini (pagg. 137-149). [Nota del gestore di Allarme Scientology]

Nel 399 a.C. Anito, Meleto e Licone accusano Socrate di [...] empietà, e di corrompere la gioventù ateniese. Il metodo usato da Socrate per manipolare la mente dei giovani e condizionare la loro libertà di autodeterminazione, insomma per corrompere, era la sua irritante abitudine di porre domande ai suoi autorevoli interlocutori, sollecitando risposte da lui già conosciute. Socrate si difese da solo e venne condannato a morte con 360 voti su 501. Su quel processo e su quella condanna a morte si fonda il problema della giustizia dell'Occidente ed è da allora che cerchiamo di vincere quel processo. Trenta giorni dopo la sentenza, tornata la nave sacra da Delo, Socrate beve la cicuta e muore ricordando a Critone, con le sue ultime parole, il debito di un gallo ad Asclepio. Critone rassicura Socrate e chiede se avesse «qualche cosa d'altro da dire» (Platone, Fedone 118a).

* * *

Il testo della proposta di legge che, al di là dei termini utilizzati, ripropone sostanzialmente il reato di plagio sembra lontano dalla civiltà giuridica espressa dalla Costituzione italiana del 1948 e da quell'insieme di proposizioni che ne rappresentano il tessuto e che, dall'art. 13 in poi, assumono il nome di diritti di libertà. Nel 1981, quando la Corte costituzionale ha dichiarato l'incostituzionalità della forma, in Italia la società multiculturale era ancora in embrione e insieme a essa si stavano formando altre realtà che dovevano incidere profondamente sul diritto. Ora le frontiere del diritto o della riflessione giuridica sono, oltre al «multiculturalismo» (N. Colaianni) al «diritto alla diversità» (G. Disegni), quella che è stata chiamata «giuscibernetica» (M.G. Losano) e quella che è stata definita «logica vaga», ma anche «ontologia vaga» (A.C. Varzi). L'altra grande frontiera che il diritto ha dovuto affrontare è stata la bioetica o, meglio, il riflesso sulla condotta sociale della bioetica (F. D'Agostino). Temi nuovi, nuovi soggetti che, nella sua etimologica vocazione a essere «retta via», il diritto deve affrontare sia come promozione del «bene» che come divieto del «male». I tempi hanno imposto al diritto nuovi punti di vista e nuove tensioni ermeneutiche.

L'esame dunque della fattispecie proposta di «manipolazione mentale» nella società globale sembra imporre almeno tre linee di riflessione oltre all'analisi del testo. La prima, in relazione al suo rapporto con la costituzione e con quello che è stato chiamato Stato di diritto costituzionale; la seconda, sulla base dell'esame della vaghezza del testo; e la terza, nella sua interazione con una società sempre più multiculturale e globale. Solo apparentemente si tratta di temi o linee di riflessione separati e autonomi; in realtà è dal loro insieme che nasce la chiarezza e la forza della riflessione e, nello stesso tempo, un modello di società civile.

Infine una considerazione per così dire conclusiva sulla «Libertà».


Analisi del testo

Cerchiamo dunque di capire esattamente qual è la struttura della norma proposta e quali siano o vogliano essere i suoi confini. La norma incriminatrice nelle intenzioni dei proponenti è rivolta a sanzionare le cosiddette «sette». La circostanza che la norma sia espressione dell'intenzione poco nobile di discriminare le nuove religiosità risulta espressamente dalla presentazione del progetto.

I presentatori, per sorreggere la loro intenzione, fanno, infatti, riferimento alla vicenda veronese dei satanisti [1]. Riconoscendo la durezza delle condanne, si chiedono se i colpevoli non fossero eterodiretti da «una setta o [da] un qualsiasi soggetto che si colloca come manipolatore della volontà altrui». Vengono poi citati i kamikaze, tali, senza dubbio, «in virtù dell'opera di manipolatori mentali, che si servono di tecniche psicologiche subdole e sofisticate». Eppure l'idea che la scelta di sacrificare la vita per più alti valori come la libertà o l'amor di patria o i propri figli o l'intera umanità sia frutto di «manipolazione mentale» è smentita da tutta la storia occidentale (Achille, Ettore, Socrate, Catone, Cristo, martiri cristiani dei primi secoli). Certo, per gli occidentali, i kamikaze terroristi sono inaccettabili non perché suicidi, ma perché colpiscono innocenti.

Gli estensori esaminano poi - in modo molto superficiale - la sentenza della Corte costituzionale del 1981 e concludono che, pur non volendo rimettere in discussione quella sentenza, tuttavia il plagio sul piano fenomenico esisterebbe e l'abolizione del plagio come reato avrebbe costituito «un grave vuoto normativo, causa dell'impossibilità di controllare e arginare reati di rango minore, per dover poi assistere a quelli conseguenti, di ben maggiore gravità». Il preteso vuoto normativo avrebbe convinto la «pubblica opinione» che il plagio «non esiste più» [2] e avrebbe permesso «ai manipolatori mentali di usare e rafforzare le loro condotte illecite», cosa questa che spiegherebbe il «lagare in Italia di attività pericolose e devastanti per l'individuo di singoli o organizzazioni di potere, anche mascherate da ricche comunità di pratiche religiose»L'acredine contro le nuove religiosità è iscritta nella scelta dei termini e delle parole. Questa era l'accusa rivolta alle associazioni italiane della chiesa di Scientology [3].

I parametri che individuerebbero la manipolazione sarebbero:

a) rapporto di prevalenza del manipolatore rispetto al manipolato tale «che comporti il totale assorbimento del secondo (soggetto passivo) nella sfera di influenza del primo»;
b) separazione del soggetto passivo dal «contesto sociale da lui autonomamente scelto»;
c)«previsione e volizione dell'evento da parte del soggetto attivo».

L'indagine sull'esistenza o meno della manipolazione sarebbe da rimettersi alla «psichiatria forense».

In sostanza la proposta, nel suo riflettere la società, si basa sull'interrogativo se i satanisti fossero eterodiretti da «una setta o [da] un qualsiasi soggetto che si colloca come manipolatore della volontà altrui», interrogativo escluso dall'istruttoria penale. Gli esempi proposti sono dunque lontani o irrilevanti. L'impossibilità di trovare esempi conosciuti e condivisibili, peraltro, suggerisce l'inesistenza dell'intero soggetto. Non è neppur detto con precisione quale sia il vuoto normativo a cui ci si riferisce e quali i minori reati; quanto al «dilagare», inoltre, l'intero insieme di movimenti, associazioni, gruppi, organizzazioni legati alla nuova spiritualità, sotto una «marea» di sigle, sarebbero poi solo 1'1,97 per cento della popolazione italiana, compresi carismatici e pentecostali, tanto da far osservare che «più di una invasione delle sette» si dovrebbe parlare di «una invasione delle sigle» [4].

Anche limitandosi a una prima lettura, la presentazione della proposta appare un insieme di considerazioni mal assemblate e contraddittorie. A noi sembra che la proposta, disancorata da un corretto e sereno esame sia della sentenza della Corte costituzionale sia della società contemporanea, faccia leva sulle paure inconsce di alcuni per sorreggere stereotipi e pregiudizi di molti (B. Mazzara) enfatizzati dai mezzi di comunicazione di massa (S. Weil). La prima incongruenza testuale, che svela il pregiudizio, è che la fattispecie non sembra corrispondere alla pretesa. Il bene protetto, infatti, non è propriamente la libertà di autodeterminarsi. La condotta incriminata non è quella di «manipolazione mentale», ma quella di lontananza o diversità da una condotta ritenuta «conveniente», «normale».

In sostanza, il bene difeso non è la libertà di autodeterminarsi, ma un'idea di libertà, i cui limiti ristretti sono segnati da una nozione convenzionale di «normalità». Ogni condotta eccedente tale normalità sarebbe e non potrebbe che essere il prodotto di «manipolazione mentale». Oggetto della sanzione in definitiva sarebbero dunque le ortodossie e le ortoprassi politiche e religiose di gruppi, partiti, movimenti, associazioni e confessioni portatrici di un pensiero forte, intenso, coinvolgente.

Sono, infatti, questi gli unici soggetti ai quali sarebbe possibile applicare la norma ex ante, in anticipo, senza bisogno che sia commesso un reato o vi sia stata la produzione di un danno. Sarebbero ortodossia e ortoprassi a divenire esse stesse il reato e sarebbero un reato di per sé. La dottrina e la pratica della dottrina sarebbero il reato.

Rilevante diviene dunque la procedibilità. Chiunque ritenga che una certa ortodossia e ortoprassi costituiscano «tecniche di condizionamento della personalità o di suggestione praticate con mezzi materiali o psicologici» e che tramite tali mezzi si sia riusciti a ridurre taluno «in uno stato di soggezione continuativa tale da escludere o limitare grandemente la libertà di autodeterminarsi», a prescindere da cosa ritiene o pensa «taluno», potrebbe esporre la situazione alla Procura della Repubblica e il sostituto procuratore di turno dovrebbe probabilmente aprire un'indagine. Non solo, ma la fattispecie in sé diverrebbe titolo risarcitorio. Un fuoriuscito, un'apostata [sic], un ex membro, un ex religioso potrebbero promuovere azione risarcitoria da fatto illecito ed eventualmente ottenere un risarcimento del danno.

Dominante, e ben superiore alla posizione del requirente o del giudicante, appare la posizione dello psicoterapeuta. Molti sono seri professionisti, ma la psicoterapia copre un ambito che va dall'elettroconvulsione allo sciamanesimo e, fra le «tecniche di condizionamento della personalità o di suggestione praticate con mezzi materiali o psicologici», quella più conosciuta e lungamente trattata nel secolo scorso è proprio il transfert fra paziente e psicoterapeuta.


Costituzione

Dal punto di vista costituzionale, alla stregua degli artt. 2, 3, 8, 19 e 20 della Carta costituzionale, ogni forma di ortodossia e orto prassi è completamente libera e non è ammesso l'accertamento preventivo sui contenuti di una dottrina o pratica religiosa (F. Finocchiaro). Gli unici limiti sono quelli che gli statuti delle confessioni o associazioni religiose non contrastino (in concreto) con l'ordinamento giuridico italiano (Costituzione, art. 8) e che i riti non siano contrari al buon costume (Costituzione, art. 19). Pertanto le dottrine e le pratiche religiose non possono essere oggetto di censura e tantomeno costituire ipotesi di reato. Non si può sanzionare una dottrina religiosa neppure se alcuni suoi precetti siano teoricamente contrari a norme dell'ordinamento, potendo lo Stato intervenire solo ove la sua norma sia violata in concreto (parere del Consiglio di Stato n. 1390 del 30.07.1986 sulla Congregazione cristiana dei testimoni di Geova).

Nella presentazione della proposta si fa riferimento al «dilagare in Italia di attività pericolose e devastanti per l'individuo di singoli o organizzazioni di potere, anche mascherate da ricche comunità di pratiche religiose». Sul dilagare, si è già osservato che statisticamente non vi è nulla che giustifichi neppure un qualche timore; per il resto, si parla di organizzazioni «mascherate», ma il problema di stabilire quando un gruppo, una comunità, un'associazione che si dichiara religiosa lo sia effettivamente non è affidato all'opinione del tutto soggettiva e individuale dei presentatori del progetto. Il problema, in assenza di una definizione giuridica di religione, è stato impostato e risolto dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 195/1993. Innanzi tutto, la Corte ha stabilito che l'accertamento della natura religiosa di un gruppo, associazione o ente può aver luogo solo quando lo Stato o le persone giuridiche pubbliche attribuiscono allo status religioso un diritto (dal punto di vista dei divieti, la natura religiosa di un ente o di un'associazione, non è una causa esimente), come per esempio un'esclusione o esenzione fiscale oppure una riserva di territorio per edificare edifici di culto. A tal fine «non può bastare che il richiedente (la confessione o associazione religiosa n. d. r.) si auto-qualifichi come confessione religiosa. Nulla quaestio quando sussista un'intesa con lo Stato, in mancanza di questa, la natura di confessione potrà risultare anche da precedenti riconoscimenti pubblici, dallo statuto che ne esprima chiaramente i caratteri o comunque dalla comune considerazione». Si tratta di un esame estrinseco, fenomenologico, senza nessun giudizio di valore sui contenuti.

In sostanza le norme della costituzione in esame costituiscono un area sottratta al sindacato dello Stato e così tanto del Governo che del Parlamento [5]. Sono quelle che vengono dette «libertà negative» [6] e che costituiscono il contenuto più profondo e vero del nostro Stato di diritto costituzionale.

Lo Stato di diritto, nella sua contrapposizione originaria allo Stato di polizia, non è un modello giuridico, ma politico. È merito della scuola giuspublicistica fiorentina e del Kelsen, aver ben chiarito che lo Stato di diritto è un modello di Stato in cui il cittadino è difeso dall'arbitrio e dal potere delle istituzioni e infine dello Stato stesso. La nozione di Stato di diritto, quindi, riguarda uno specifico contenuto di merito delle norme.

È una grande conquista che ha attraversato la storia insanguinata dell'Occidente, imponendosi poco alla volta insieme al sorgere degli stati nazionali e all'affermazione della borghesia, con le sue aspirazioni liberali alla gestione di una quota del potere riservato fino all'ora in modo esclusivo al sovrano assoluto.


Vaghezza

La logica vaga o fuzzy logic affermatasi alla fine del secolo scorso è spesso presente nella costruzione di fattispecie giuridiche e generalmente lo sforzo dell'interprete è quello di ridurre al minimo l'area della vaghezza, dato che quella vaghezza può poi trasformarsi in sofferenza vera, sudore e sangue, processi, sentenze, risarcimenti, prigioni, può di colpo passare dal silenzio di una stanza di studio o biblioteca, al «in nome del Popolo italiano, visto l'art. 533 del Codice di Procedura penale...». Nella proposta di legge in commento, il nucleo prescrittivo è in sé e per sé dominato dalla vaghezza tanto da poter osservare, per dirla con Norberto Bobbio, che si tratta di un procedere per obscura ad obscura. In realtà si tratta di un'esperienza logica già nota ai megariti nel IV secolo a.C. con il nome di sorite (= mucchio). La domanda era, allora, quale sia il granello di sabbia che aggiunto ad altri trasforma i granelli in «mucchio» di sabbia? Oppure qual è il granello di sabbia che sottratto al mucchio fa venire meno il mucchio stesso?

Dall'insieme delle proposizioni prendiamo due note indicate come specifiche:
a) «stato di soggezione continuativo»;
b) «limitare grandemente la libertà di autodeterminazione».

A parte situazioni limite, quanto deve durare la soggezione per esser continuativa, ore, giorni, mesi o più mesi, oppure anni? Qual è il giorno in più, che aggiunto agli altri fa della soggezione una soggezione continuativa? Se la persona è soggetta ad altra o a un'organizzazione per saltum, perché per esempio va in vacanza alcuni mesi, quando torna, la soggezione è sempre continuativa o ricomincia da capo a decorrere? Se una persona è in soggezione rispetto ad altra persona che incontra diciamo una volta ogni tre mesi, la soggezione è continuativa? Qual è la differenza fra una soggezione non continuativa e una continuativa? Se va in soggezione per, diciamo, due giorni o due volte in un giorno, quale rilievo ha in relazione alla norma? E se la persona è in soggezione ed è condizionata nelle sue libere scelte perché ha letto un libro, l'autore del libro è imputabile?

Per obscura ad obscura.

Cosa significa limitare grandemente la libertà di autodeterminazione? Quando una limitazione non grande diventa grande? Qual è il quid pluris che la rende rilevante ai fini della norma incriminatrice? La libertà di determinazione non è forse limitata definitivamente e non solo grandemente in ogni caso in cui una persona decide qualche cosa? Quando una decisione è libera e quando non lo è? Quando si può affermare che una decisione non è libera?

Per obscura ad obscura.

Lasciamo perdere quello che un giurista potrebbe dire su condizionamento, suggestione, psicologici.

Ma poi lo «stato di soggezione continuativo» descrive il rapporto dei genitori con i figli e, nel caso dei figli, l'uso di sistemi educativi, accompagnati dallo strapotere psicologico, creano o no una soggezione continuativa (sulla quale peraltro si fondano alcuni parametri classici della psicoanalisi e della psicoterapia oltre a telefono azzurro)? Se i genitori educano bene i figli, il condizionamento continuativo è legittimo? E se li educano male? La legittimità dell'imputazione dipende dal condizionamento o da quel «bene» o «male»? Se una ragazza scegliesse di entrare in clausura, e cambia radicalmente vita, ha subìto forse «tecniche di condizionamento della personalità o di suggestione praticate con mezzi materiali o psicologici»? Forse tramite tali mezzi si è riusciti a ridurla «in uno stato di soggezione continuativa tale da escludere o limitare grandemente la libertà di autodeterminarsi»? Potrebbero i genitori denunciare la Congregazione o l'Ordine? E se invece ha sentito la chiamata del divino? E se il cambiamento di vita è una scelta, come spesso è nelle associazioni che hanno a oggetto dottrine politiche o religiose forti? In tal caso il c.d. «condizionamento», identico dal punto di vista fenomenologico, è adesione a un credo e chi mai lo può giudicare? Irresistibilmente viene alla mente Mill, in uno dei punti cruciali nella storia del faticoso emergere dei diritti civili universali in Occidente: «il bene dell'individuo, sia fisico sia morale, non costituisce una giustificazione sufficiente dell'interferenza. Un individuo non può essere costretto o impedito a fare qualche cosa per il fatto che ciò sarebbe meglio per lui, o perché ciò lo renderebbe più felice, oppure perché agire così, almeno secondo l'opinione degli altri, sarebbe saggio e persino giusto» [7].

I confini della norma proposta sono, oltre il «più grave reato», una congerie compatta e organizzata di reati, basata su un esperienza storica e una prassi giurisprudenziale completa, che anche dal punto di vista sistematico rende inutile la norma per quello che dichiara di voler essere.

Dallo sfruttamento della credulità popolare.
Alla riduzione in schiavitù e i delitti connessi (tratta, commercio).
Alla truffa.
All'appropriazione indebita.
Alla circonvenzione d'incapace.
Alla violenza privata.
Alla minaccia.
Alle varie ipotesi di delitti contro la persona.
Alle varie ipotesi di delitti contro la libertà personale.
Alle varie ipotesi di abuso.
Alla estensione delle fattispecie al tentativo, ai concorrenti, agli istigatori, ai complici, ai mandanti e ai favoreggiatori con tutte le aggravanti e attenuanti previste dal codice penale e così via e senza parlare delle tutele civilistiche.

Si tratta di una rete minuta posta dal legislatore, formatasi nel tempo e nel tempo sperimentata, per combattere le illegalità. Di una nuova fattispecie, volta secondo i proponenti a colpire «minori reati» misteriosi, non indicati (e probabilmente inesistenti), e invece idonea a perseguitare minoranze o diversità, lo Stato di diritto costituzionale non ha proprio bisogno. Sembra piuttosto un reato inventato per legittimare una condotta che sarebbe in caso contrario essa stessa un reato.

Il reato di plagio, infatti, utilizzato senza grande fortuna per le rotture di promessa di matrimonio, ha dato luogo solo a una condanna ideologica in tutta la sua breve storia. Per ogni altro, satanisti compresi, l'ordinamento è del tutto attrezzato e in grado di condannare gli autori di reati, i mandanti, gli istigatori, i complici e i fiancheggiatori. [...]


Libertà

Quasi tutte le costituzioni delle democrazie occidentali disciplinano le libertà. È come se nel destino della civiltà occidentale fosse inscritta non solo la scelta della razionalità, ma anche la lenta emersione delle libertà contenute nei diritti civili universali. È quella parola, «tutti» - i «tutti» che hanno uguali diritti o che sono uguali di fronte alla legge o, ancora, che possono o non possono - a ritagliare i confini del potere dello Stato e in quei confini è racchiuso lo Stato di diritto e, al suo interno, la libertà di religione. Si dice che questa libertà è garantita dallo Stato laico e, almeno in molta misura, questo è vero; e si deve allo Stato laico il riconoscimento delle diversità, la difesa della multi-cultura e del pluralismo. Ma la vocazione dell'Occidente al superamento delle diversità e alla libertà per tutti resta una vocazione, se quella libertà di cittadini, individui, popoli o nazioni, non si realizza nel riconoscimento, dietro le diversità, dietro le specificità, della presenza del divino in ciascun essere incarnato. È solo in quel riconoscimento che si realizza quella sorta di vocazione alla libertà e la libertà difficile, combattuta, talvolta tradita, spesso incompleta, contenuta nella Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo diviene «la» Libertà, in cui ogni determinazione e ogni differenza cessa e cessa ogni «manipolazione mentale». È in quella Libertà che ogni differente ortodossia può diventare l'Ortodossia e ogni differente ortoprassi diventare l'Ortoprassi.

Note:

1. Cf. D. MONTI-M. FIORI-A. MICOLI L'abisso del Sé. Satanismo e sette sataniche, Giuffrè, Milano 2011, pp. 421 ss.

2. In effetti, il reato di plagio, come reato autonomo, non è mai esistito prima del 1930 e la sua breve vita ordinamentale è durata dal 1930 al 1981, dando luogo a un'unica sentenza di condanna. Fino al 1930 il reato era sempre quello, già presente nel diritto romano, di riduzione in schiavitù.

3. Cf. M. MORSA, Il "caso" Scientology. Associazioni non riconosciute religiose: aspetti giuridici, fiscali e processuali, «Diritto Civile e Procedura Civile» 1/4 (2000) (http:// tinyurl.com/Morra2000); F. FINOCCHIARO, Scientology nell'ordinamento italiano, «Diritto Ecclesiastico» 3 (1995), pp. 603 ss.; G. CAROBENE, Strumenti e modalità finanziarie della Chiesa di Scientology in Italia, in A. FUCCILLQ (a cura di), I mercanti nel Tempio. Economia, diritto e religione, Giappichelli, Torino 2011, pp. 107 ss.

4. M. INTROVIGNE-P. ZOCCATELLI (a cura di), Le re1igioni in Italia, Elledici-Velar, Torino-Gorle 2006, p. 8.

5. È un'area sottratta anche al Parlamento, nel senso che in Italia non possono essere approvate dal Parlamento leggi ordinarie incostituzionali e, se approvate e promulgate, soggette alla dichiarazione di incostituzionalità da parte della Corte. Secondo la teoria costituzionalista (o neo-costituzionalista) degli ultimi anni del secolo scorso, le costituzioni rappresentano i principi e l'ordinamento, le regole che devono adeguarsi a quei principi. Naturalmente il Parlamento con le procedure previste può modificare i principi.

6. I. BERLIN, Libertà, Feltrinelli, Milano 2010, p. 187.

7. J.S. MILL, Sulla Libertà, Rizzoli, Milano 2000, p. 55.

Nota del gestore di Allarme Scientology:

L'avvocato Fabrizio D'Agostini è persona nota ai fedeli della Chiesa di Scientology in quanto redattore delle rivista Quaderni di Freedom della Comunità di Scientology e OT VI del percorso spirituale proposto dalla Chiesa di Scientology (si veda qui e qui).
Allarme Scientology, il sito che state leggendo, è fortemente critico dell'ortodossia e dell'ortoprassi della suddetta chiesa, ma il suo gestore ritiene che il contributo dell'Avv. D'Agostini a Credere è Reato? sia interessante sotto molteplici punti di vista, si attenga ai dettami delle scienze socio/umanistiche ed esuli dall'appartenenza personale del singolo.

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