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Credere è reato? Libertà religiosa nello Stato laico e nella società aperta

Credere è reato? E' questa la domanda che si pone una recente collettanea (2012) curata dal sociologo Luigi Berzano in merito alla incessante proposta di reintrodurre nel nostro ordinamento penale il reato di plagio/manipolazione mentale.

Volume edito dalla Edizioni Messaggero Padova, ISNB 978-88-250-2842-3, euro 24.

 
A novembre 2012 è uscito l'interessante volume curato da Luigi Berzano, ordinario di sociologia dei processi culturali all'Università di Torino, che raccoglie i contributi di 23 tra sociologi, giuristi, psicologi, antropologi, filosofi e dirigenti di Nuovi Movimenti Religiosi in merito alle proposte di legge per reintrodurre il reato di plagio/manipolazione mentale che si sono succedute fin dalla sua storica abrogazione nel 1981.

I media sono sempre pronti ad accogliere la preoccupazione e l'allarme generato da una manciata di micro associazioni "antisette", quei circoli privati che la Squadra Antisette della Polizia di Stato e la sua dirigente Dott.sa Maria Carla Bocchino ritengono essere delle fonti attendibili e privilegiate, nonostante gli errori di valutazione fatti in passato che hanno comportato abusi giudiziari e di altra natura agli ingiustamente presi di mira. Televisioni, giornali, pseudo-inchieste giornalistiche danno molto risalto a un presunto "dilagare" di "sette sataniche, pseudo-religiose e psicosette" che costituirebbero un vero e proprio "cancro sociale", cioè un imminente quanto concreto pericolo per l'individuo, la famiglia e la società. A loro modo di vedere, un mezzo utile e necessario per contrastare questo presunto "dilagare" sarebbe il ripristino del reato di plagio (nella sua nuova formulazione di "manipolazione mentale").

A prima vista, e volendosi accontentare di una descrizione fortemente emotiva, parziale e pregiudizievole di una realtà molto più complessa, si potrebbe essere tentati di accogliere quelle proposte come giuste e sacrosante. Ma il reato di plagio fu abrogato per una serie di motivi molto seri, primo fra tutti la sua incostituzionalità. Le successive proposte di reintrodurlo non hanno risolto quei gravi problemi, esponendo perciò ogni singolo cittadino italiano ai potenziali e gravi pericoli così ben esplicitati nella collettanea curata da Berzano.

Ho raccolto nelle pagine che seguono alcuni estratti degli interventi che - per una serie di motivi - mi sono parsi più interessanti, ma consiglio vivamente la lettura integrale del libro a chiunque voglia andare oltre la spinta emotiva suscitata dal presunto "dilagare delle sette".

L'auspicio è che i sostenitori della reintroduzione del plagio scendano nell'arena della discussione scientifica e contestino con gli strumenti delle scienze sociali - non con quelli dell'emotività - le conclusioni a cui sono giunti gli autori di Credere è Reato?

Simonetta Po



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Libertà religiosa nello stato laico e nella società aperta

Luigi Berzano (pagg. 13-31)

Da tempo giace in Parlamento un disegno di legge per reintrodurre in Italia il reato di «plagio», nascosto dietro la nuova denominazione di «manipolazione mentale». Il testo del disegno fa esplicito riferimento alla pericolosità rappresentata dalle «sette» religiose, nel tentativo di ripristinare un reato già cancellato nel 1981 dalla Corte costituzionale italiana. È di qui che siamo partiti, quando abbiamo deciso di invitare studiosi attivi nel campo delle scienze giuridiche, sociali e psicologiche a discutere della libertà religiosa nelle società occidentali. Alcuni degli invitati a questa discussione sono o sono stati presidenti e segretari delle maggiori associazioni accademiche internazionali che studiano le religioni.

Le ragioni per discutere di questi temi non mancano. Il clima di insofferenza per molte delle nuove forme religiose, ovvio portato di pluralismo e globalizzazione, rende urgente un confronto approfondito, al di là di pregiudizi e tentazioni scandalistiche. Negli ultimi tempi, anche l'editoria italiana non ha mancato di fornire un esempio negativo. Diverse recenti pubblicazioni coinvolgono, infatti, in un unico giudizio negativo e criminalizzante interi movimenti e gruppi religiosi, sulla base di inchieste scadenti o del tutto inesistenti.

Il nostro scopo è quindi quello di porre la questione dei rapporti tra libertà religiosa, Stato laico e società aperta. Con quest'ultima espressione intendiamo una società aperta a più visioni del mondo, a più proposte politiche, a più valori e, anche, a più religioni e spiritualità. È una società chiusa solo alla violenza e all'intolleranza. Per quanto riguarda le forme religiose, questa visione di tolleranza e apertura a tutte le fedi discende dalla consapevolezza della fallibilità della conoscenza umana, nella convinzione che, anche per quanto riguarda i valori ultimi, viviamo e sempre vivremo in un mondo politeista. Del resto, anche i valori ultimi non sono certo teoremi dimostrabili e auto-evidenti. Non tanto perché gli individui dubitino delle proprie verità, quanto piuttosto perché non possono credere di esserne gli unici possessori. Al contrario, è la verità a possedere tutti. Solo la società chiusa e intollerante ha la pretesa di possedere verità ultime, totali, razionali e incontrovertibili da imporre indistintamente a tutti.

Ogni ricercatore che abbia studiato a fondo un gruppo religioso, per quanto piccolo e marginale, non può non avere incontrato individui che nella loro appartenenza al gruppo hanno messo in gioco quanto di più intimo e profondo avevano nella loro vita. Individui che nel gruppo hanno deposto le proprie speranze, la propria fiducia, il senso stesso della vita; e che al gruppo hanno dedicato con onestà e sincerità tutta la propria esistenza. Quando pensiamo a uno Stato laico e a una società aperta, abbiamo in mente uno Stato e una società che lasciano anche a questi individui la libertà di trovare la risposta ai propri bisogni interiori e di esprimerli socialmente nelle forme che meglio credono. Libertà di fare le proprie scelte religiose significa, di fatto, libertà di essere. Per questo motivo, la libertà religiosa dovrebbe essere ai primi posti tra quelle sancite e garantite a ogni essere umano. Non a caso così è nella Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo.


Libertà religiosa e laicità come stile di vita

Nello Stato laico e nella società aperta, la laicità è uno stile di vita che tutti dichiarano di possedere, nonostante attorno alla parola laicità si addensi ancora una molteplicità di significati e concetti. Per alcuni la laicità evoca idee di modernità, progresso, futuro. Per altri richiama l'insofferenza per la religione, la lotta contro le chiese. In molti casi, potere civile e potere religioso non hanno fatto altro che combattersi per indossare l'uno la veste dell'altro o anche, non di rado, indossando la stessa veste. Oggi a quelle tradizionali si aggiunge una nuova definizione: la laicità come stile di vita. Nella sfera pubblica, come in quella privata, la laicità non riguarderebbe soltanto certi temi e problemi, ma anche il modo di affrontarli: uno stile di vita che dovrebbe appartenere sia agli individui religiosi che agli individui non religiosi.

Così intesa, la laicità rappresenta una sfida positiva per tutti, poiché non è sufficiente essere non-religioso per essere laico nei significai che l'etimo lao comprende: osservare senza pregiudizi, afferrare e tener fermo quanto si è osservato, assumere su di sé la responsabilità di quanto si è osservato. La laicità indica un atteggiamento verso la realtà e un modo di vivere e rispettare le differenze degli altri individui. Per gli individui religiosi è anche un modo di vivere l'esperienza religiosa a livello personale e interiore. Laico è chi tratta delle cose con spirito di osservazione e agisce di conseguenza. Si tratta di una connotazione positiva che si è andata perdendo con l'Illuminismo, quando «cultura laica» prese a indicare in prevalenza un tipo di cultura antidogmatica, basata sulla ragione scientifica.

Oggi che il pluralismo culturale, politico e religioso è la sola condizione possibile di convivenza pacifica, uno Stato laico e una società aperta sono tali quando non schiacciano l'individuo, ma liberano al contrario la fantasia e le capacità critiche di ognuno, riconoscendo e proteggendo le diversità, comprese quelle religiose. Nello Stato laico e nella società aperta le maggioranze religiose riconoscono diritti e libertà fondamentali anche alle minoranze. Questi diritti appartengono tanto alle religioni credute "vere" da un individuo quanto a quelle credute "non vere" da un altro individuo. Unico vincolo e limite per tutte le religioni è quello rappresentato dalle legislazioni civili e penali che ogni società si è data.

Ha qualche analogia con il concetto di società aperta anche quello di Religione aperta, dal titolo di uno degli ultimi scritti di Aldo Capitini [1]. La religione aperta caratterizza la religiosità laica di Capitini, per cui religione non significa un credo impositivo, ma apertura a tutti gli esseri viventi. Per Capitini il sacro è aperto, non si limita al solo cerchio dei credenti. Stupisce che pochi mesi dopo la sua pubblicazione, la Congregazione per la dottrina della fede abbia condannato il volume ordinandone l'iscrizione nell'indice dei libri proibiti.

La libertà religiosa è soprattutto la libertà della religione degli altri e la difesa della libertà religiosa è in primo luogo la difesa della libertà religiosa degli altri, nella consapevolezza che tutte le religioni sono ruscelli di un'unica fonte, rami di un unico albero. Una lunga tradizione di pensiero, che parte dal Trattato teologico-politico di Baruch Spinoza (1670) e dalla Lettera sulla tolleranza di John Locke (1685), richiede allo Stato di lasciare libertà nelle scelte individuali - e quindi anche libertà di culto - e di essere protettore di tutti, e non tiranno. Il titolo intero dell'opera di Spinoza recita: «Trattato teologico-politico comprendente alcune dissertazioni nelle quali si dimostra che non solo la libertà del filosofare può essere ammessa per il sentimento religioso e per la pace civile, ma che anzi essa non può essere soppressa se non con la rovina della pace civile e dello stesso sentimento religioso». La libertà religiosa rimane dunque sempre un diritto, un dovere e, in alcuni casi, anche una sfida pericolosa per la società; anche in questi casi ogni legislazione possiede gli strumenti per ricercare ciò che è illegale, senza il bisogno di legislazioni specifiche per reati di tipo religioso.

La libertà religiosa non è solo un problema di difesa dei credenti, ma condizione di ogni vera democrazia, secondo la concezione che viene formandosi dal Rinascimento in poi e passa dall'essere liberi nello Stato per arrivare alla garanzia di non subire intrusioni da parte dello Stato nella vita personale, privata. Riprendendo la celebre lezione di Benjamin Constant del 1819 diremmo che la libertà consiste sia nell'ottenere «la libertà nello Stato», cioè la libertà degli antichi, sia «la libertà dallo Stato», cioè il diritto di partecipare alla vita pubblica. Questa idea di libertà è il frutto di apporti diversi. Secondo eminenti storici [2] questa idea di libertà prende avvio dal dibattito sulla libertà religiosa tra Erasmo e Lutero nel Cinquecento. Quel dibattito metteva in luce l'esigenza di separare la comunità politica dalla comunità religiosa, in modo da garantire il diritto di ciascuno di aderire a una confessione religiosa diversa da quella della maggioranza. Lo Stato doveva limitare il suo potere riconoscendo ai singoli cittadini l'autonomia nella sfera privata.

Oggi anche gli sviluppi del diritto ecclesiastico statale, se considerati in una prospettiva comparativistica, lasciano intravedere una tendenza comune. E il superamento, non senza contrasti tra Stato e Chiesa, del principio confessionistico e l'affermarsi della laicità dello Stato. «Ma alla fine la caduta del confessionismo di Stato è un fatto generalizzato, e appare agli occhi dei contemporanei come una faticosa ma positiva conquista. La qualificazione in senso confessionale dello Stato e del suo ordinamento giuridico si attenua fino a scomparire nei Paesi dell'area riformata: persino nell'esperienza inglese, l'anglicanesimo tende progressivamente a retrocedere da religione di Stato a culto dominante» [3]. Tutto ciò è avvenuto anche negli ordinamenti degli Stati di più antica tradizione cattolica, che si sono liberati dall'antica aspirazione a una qualificazione in senso confessionale dell'ordinamento dello «Stato cattolico». Soprattutto nel pensiero del concilio Vaticano II c'è l'aspirazione a un ordinamento statuale caratterizzato da piena libertà ed eguaglianza in materia religiosa, dei singoli e dei gruppi. Ma in questo superamento del sistema confessionista e nell'affermarsi del principio della laicità dello Stato - che insieme rappresentano il processo di secolarizzazione - non mancano elementi ambivalenti. Da un lato, perdita da parte delle chiese storiche del loro potere monopolistico di promuovere lo sviluppo della società; dall'altro, attuazione dell'insegnamento evangelico che si incarna, si storicizza e si fa speculum nelle strutture politico-giuridiche.

Le questioni che stiamo ponendo sono ben più ampie delle vicende dalle quali nasce la discussione di questo libro. Ma appunto per questo pare sorprendente l'accento che si pone in alcuni ambienti sul pericolo e sul potere manipolante di piccole realtà - quali piccoli gruppi o movimenti religiosi - a fronte del potere condizionante e manipolante delle società totali di massa, il cui intervento sociale e statale sulla vita dell'individuo, sulle sue idee e sui suoi gusti va aumentando di pari passo con il progredire della tecnica e dei mezzi di comunicazione di massa. Il pericolo di manipolazione mentale è in questo contesto ben più sottile ed esteso. La speranza è che l'individuo, acquisendo con l'educazione seri valori umani, sappia mantenere la propria integrazione nella società, senza perdere il rispetto di se stesso e quello della propria autonomia di giudizio e di azione.


Dalle sette ai nuovi movimenti religiosi

Il problema che vogliamo discutere in questo contesto è quello della libertà religiosa dei piccoli gruppi; una libertà che abbia i suoi limiti e confini solo in riferimento alla legislazione civile e penale. Ogni altra legislazione ad hoc per le forme religiose correrebbe il rischio di discriminarne alcune, in particolare quelle più innovative, di minoranza, specialmente tra quelle definite «sette». La tipologia setta-chiesa è classica nella sociologia ed è stata, secondo molti, priva di connotazioni negative o positive relative all'una o all'altra forma. Così era per Max Weber e Ernst Troeltsch. Mi pare di poter dire che questa tipologia sia stata largamente determinata, fin dall'inizio, dal conflitto storico tra il giusnaturalismo cattolico romano e lo spirito del protestantesimo nel suo nucleo riformatore essenziale e nelle diverse forme e denominazioni che esso ha poi assunto specie nel mondo tedesco e anglosassone.

Oggi, in prevalenza, quando si nomina il «fenomeno settario», si suscita allarme sociale [4]. Di recente, il fenomeno è stato battezzato con il nome suggestivo di «occulto Italia» ed è stato descritto in termini accesi e stigmatizzanti, più di quanto fosse mai accaduto nei documenti delle chiese storiche di maggioranza, persino nei periodi più intransigenti. Questi documenti, pur vedendo nell'estendersi di sette e nuovi movimenti religiosi una sfida pastorale, hanno, di regola, sempre cercato di conoscere e di comprendere il fenomeno, prima di condannano.

Di questo problema si sono resi conto anche i sociologi delle religioni. Da anni hanno abbandonato la parola «setta», proprio perché troppo stigmatizzante, sostituendola con l'espressione più sfumata «nuovi movimenti religiosi». Come si è detto sopra, la categoria di «setta» opposta a quella di «chiesa» è stata introdotta nelle scienze sociali da Weber per descrivere un tipo di forma religiosa «in statu nascenti», diversa quindi dalla chiesa istituzionalizzata. Quanti oggi evocano il pericolo delle sette con toni stigmatizzanti non si riferiscono certo più alla forma religiosa descritta da Weber, che rappresenta il momento iniziale, creativo ed effervescente dell'innovazione religiosa, precedente qualsiasi forma di istituzionalizzazione.

A giustificare questa nuova preoccupazione linguistica è lo stesso mutato contesto storico. Per le società europee fino a metà del Novecento tutte le religioni che si formavano o convivevano accanto alla religione di maggioranza erano viste come «sette», cioè parti che si staccavano dalle chiese storiche. Da qualche tempo, il pluralismo religioso, che in buona parte si lega ai movimenti migratori tipici del Ventesimo e del Ventunesimo secolo, non fa che movimentare il paesaggio delle forme religiose e diminuire il rapporto tra religione di maggioranza e minoranze religiose. Gli effetti sono duplici: da un lato la creatività associativa del sentimento religioso risulta sempre più vasta e fiorente; dall'altro si accresce la sensibilità sociale di chi deve convivere con questo pluralismo. Ai ricercatori spetta di documentare entrambi gli effetti. L'urto che può verificarsi tra la creatività delle nuove forme religiose e la sensibilità preoccupata delle tradizioni storiche è spesso fonte di reazioni in cui le emozioni hanno il sopravvento sulla ragione.

La radice del problema va ricercata nel fatto che la sociologia e la storia delle religioni non hanno mai elaborato un'unica definizione condivisa di religione, fermandosi alla nota descrizione di Émile Durkheim, per cui la religione è l'immagine sociale di ogni società. Questa assenza di definizione pare derivare dalla dimensione metaculturale cui appartiene la religione, una dimensione in cui - così come avviene per l'uomo e la libertà - essa non è giuridicamente definibile. Anche per la religione, quindi, varrebbe il principio giuridico: omnis definitio periculosa. [(nel diritto) ogni definizione appare pericolosa].

A un livello più circoscritto, e in riferimento alle forme religiose minoritarie, l'aura negativa che circonda oggi la parola «setta» tende a sminuire e squalificare la stessa realtà (gruppo, movimento, chiesa) che essa rappresenta. In questo processo di stigmatizzazione sono coinvolti tutti: dalle forme sociali che la setta comprende a coloro che ne fanno parte. Su questi ultimi poi si abbatte spesso l'onda emotiva di genitori, parenti e amici, oltre che degli uomini delle chiese di maggioranza. Tutto contribuisce a creare interpretazioni negative delle conversioni, come se tutte fossero basate su manipolazione mentale, violenza e lavaggio del cervello.

La valutazione negativa del fenomeno si aggrava soprattutto quando a descriverlo sono gli ex membri dì movimenti e gruppi religiosi, che offrono le loro testimonianze, accuse e storie di vita. «Difendersi dalle sette» - come dall'AIDS, dagli stranieri, dagli ebrei e da altre minacce - si trasforma, a volte, nell'unico obiettivo di chi ha lasciato un gruppo o movimento, magari dopo anni di appartenenza. Non mancano gli ex membri che si sono costituiti in «gruppi anti-sette», uniti in una missione di lotta comune. La loro forte coesione interna, la condivisione di una comune vocazione alla lotta contro il male e l'impegno costante a liberare dal potere delle sette quante più persone possibile hanno indotto alcuni ricercatori a considerare i «gruppi anti-sette» come l'ultima e più radicale forma di «setta».

In questo contesto, ogni polemica anti-settaria di volta in volta alimentata da particolari gruppi e campagne di stampa, classifica il fenomeno nell'ambito dell'irrazionale, del fondamentalismo, del plagio, della devianza e, da ultimo, dell'occulto. Si ritrova, in questa visione negativa delle minoranze una situazione che la sociologia della devianza ha da tempo ben illustrato. Gli individui che fanno parte di una minoranza, in quanto potenzialmente in grado di compiere infrazioni e reati, vengono considerati come colpevoli a prescindere dal loro comportamento. L'effettivo compimento del reato non è che la formalizzazione dell'appartenenza di questi individui e gruppi a una categoria sociale considerata deviante.

Ogni campagna d'opinione nei mass-media, e ancor più ogni intervento delle istituzioni a controllo del fenomeno settario, non fa altro che seguire e indurre ulteriori definizioni di devianza putativa, cioè di devianza ipotetica. È un atteggiamento che si nutre di paure e sospetti, spesso privi di qualsiasi fondamento reale. L'accusa di devianza putativa si basa sempre su valutazioni di ipotetica pericolosità per l'ordine pubblico, oltre che su interessi, pregiudizi e intolleranza. A variare, a seconda del tempo e delle culture, sono solo le tipologie di «capro espiatorio» (ebrei, islamici, skinheads, drogati, immigrati e altri). Costante è invece l'abbondanza di giudizi pieni di a priori, che rinviano a presunte apostasie, infedeltà e illegalità.

Questa cultura del sospetto richiama gli elementi di quella che i ricercatori della Scuola di Chicago hanno definito labelling theory. Secondo questa teoria la devianza non è una proprietà inerente ai comportamenti, ma un dato dipendente dalla reazione degli altri, siano essi «imprenditori della morale» o «militanti di crociate morali» [5]. Questo elemento richiede che i ricercatori non tralascino la ricerca dei modi con cui la devianza putativa - cioè attribuita - può produrre devianza reale. In questo contesto le identità sono di regola quelle del gruppo, anziché quella dei singoli individui. È sufficiente che un individuo appartenga a un certo gruppo considerato deviante per essere lui stesso definito tale.

Quando si verificano queste ondate di panico, servirebbe più ricerca e interpretazione del fenomeno per non favorire lo sbocciare di eventuali campagne di pericolosità che colpiscono di volta in volta solo capri espiatori. In realtà, in questi contesti nemmeno più i ricercatori sono coinvolti e ascoltati, poiché considerati troppo neutrali e oggettivi. Il definire un fenomeno in modo negativo rende irrilevante le fasi distinte della ricerca documentaria, dell'analisi dei dati e della loro interpretazione.


Sette e manipolazione mentale

La recente proposta di reintrodurre nella legislazione italiana il reato di manipolazione mentale, a sostituzione di quello di plagio, nasce anche dal contesto culturale ed emotivo che circonda le sette, richiamato sopra. Perché mai risuscitare il reato di plagio, se non per il periodico riemergere delle campagne di lotta contro il pericolo delle forme religiose di minoranza, non istituzionalizzate, anomale e ritenute devianti o occulte?

Un nuovo disegno di legge, tuttora presso la Commissione Giustizia del Senato della Repubblica (Disegno di legge n. 569, presentato alla Presidenza il 13 maggio 2008) riguarda il reato di manipolazione mentale. Già in precedenza, altri disegni di legge analoghi erano stati presentati e alcuni approvati dalle Commissioni Giustizia. Tra questi ultimi quello del Senato della Repubblica del 4 marzo 2004. Tutto ciò avviene nonostante l'ordinamento giuridico italiano abbia già eliminato il reato di plagio (articolo 613 del Codice penale), quanto incostituzionale, con sentenza della Corte Costituzionale del 1981. In questi anni il problema è stato ampiamente ridiscusso. La conclusione è che il reato di plagio è impossibile a realizzarsi, poiché, in caso contrario, andrebbe punita ogni situazione di dipendenza psichica ed emotiva, come quelle del rapporto tra due amanti, tra genitori e figli, tra maestro e allievo, tra medico e paziente, tra guida spirituale e discepolo e molte altre che si ripresentano nella vita quotidiana.

Del resto gli unici cittadini italiani condannati, nel 1968, per reato di plagio furono Aldo Braibanti, poeta romano colpevole di intrattenere relazioni omosessuali con un giovane amico e il prete cattolico don Emilio Grasso, accusato da alcuni genitori di aver plagiato i figli entrati nella Comunità Redemptor hominis da lui fondata e tuttora attiva.

Aldo Braibanti, «inchiodato» dal processo in poi come il «professore» che plagiava gli allievi, in realtà non era un professore. Era un poeta, un artista con molte esposizioni di arte plastica e figurativa al suo attivo, un curatore di trasmissioni radiofoniche per la Rai, di spettacoli teatrali e di film sperimentali. Nel 1968 fu accusato di aver plagiato due giovani per intrattenere con loro, a detta dell'accusa, «turpi» rapporti omosessuali. Mai, prima di allora nella storia italiana, il reato di plagio aveva portato a una condanna [6]. Si trattò di un processo ideologico e omofobico, reso possibile proprio dall'esistenza del reato di plagio.

Don Emilio Grasso, nato a Roma nel 1939 e con un percorso formativo di studi economici, sociali e teologici, visse in diocesi di Roma gli anni del concilio Vaticano II. In quel contesto ricco di fermenti culturali, don Emilio sviluppò progetti volti all'apertura e s'impegnò nella realtà sociale. Un'influenza particolare ebbero su di lui Charles Péguy, Emmanuel Mounier, e gli italiani don Primo Mazzolari, Giorgio La Pira e don Zeno di Nomadelfia. Fondò la Comunità Redemptor hominis. I genitori di alcuni giovani entrati nella comunità lo denunciarono per plagio. Di qui nacque il successivo processo. Attualmente è il Responsabile Generale della Comunità.

È da notare che la Corte Costituzionale non dichiarò l'illegittimità costituzionale dell'art. 603 del Codice penale in relazione al caso Braibanti, ma intervenendo sul caso di don Emilio Grasso. Anche quello di don Grasso fu un processo ideologico, frutto dell'intolleranza esacerbata dai conflitti familiari causati da una scelta di vita dei figli non gradita ai genitori denuncianti. Don Grasso, al contrario di Braibanti, si salvò dalla condanna, grazie alla pronuncia della Consulta.

Oggi, anche i tredici senatori firmatari il nuovo disegno di legge per l'introduzione del reato di manipolazione mentale si rendono conto dell'impossibilità di riproporre il già cancellato reato di plagio (Disegno di legge n. 369, 2008, in discussione alla Commissione Giustizia del Senato). Come si configurava dunque questo reato? L'articolo 603 del Codice Rocco recitava: «Chiunque sottopone una persona al proprio potere, in modo di ridurla in totale stato di soggezione, è punito con la reclusione da cinque a quindici anni». Oggi i nuovi firmatari chiedono, sostanzialmente, di reintrodurre questo articolo nella forma della manipolazione mentale, senza però considerare che ancora esiste il reato di circonvenzione di incapace, ampiamente sufficiente a condannare abusi e violenze psicologiche e manipolatorie sulle persone. Esistono, cioè, altre ipotesi di reato previste per punire chi imbroglia, chi truffa, chi esercita violenza, chi abusa della credulità. Il citato disegno di legge è composto di soli due articoli che riporto testualmente:

ART. 1.

Dopo l'articolo 613 del Codice penale è inserito il seguente:

ART. 613-bis (Manipolazione mentale).
Salvo che il fatto costituisca più grave reato, chiunque, mediante tecniche di condizionamento della personalità odi suggestione praticate con mezzi materiali o psicologici, pone taluno in uno stato di soggezione continuativa tale da escludere o da limitare grandemente la libertà di autodeterminazione è punito con la reclusione da due a sei anni.
Se il fatto è commesso nell'ambito di un gruppo che promuove o pratica attività finalizzate a creare o sfruttare la dipendenza psicologica o fisica delle persone che vi partecipano, ovvero se il colpevole ha agito al fine di commettere un reato, le pene di cui al primo comma sono aumentate da un terzo alla metà.
Se i fatti previsti nei commi 1 e 2 sono commessi in danno di persone minori di anni diciotto, la pena non può essere inferiore a sei anni di reclusione.

ART. 2. (Entrata in vigore)
La presente legge entra in vigore il giorno successivo alla sua pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica.

Cosa recita dunque l'attuale Disegno di legge n. 569 che chiede l'introduzione dell'articolo 613 bis? A parere di molti il tentativo è quello di riproporre quanto già dichiarato impossibile dai magistrati della Consulta: «Non si conoscono né sono accertabili i modi con i quali si può effettuare l'azione psichica del plagio né come è raggiungibile il totale stato di soggezione che qualifica questo reato». «L'indeterminatezza della norma», richiamata nella sentenza della Consulta, non era determinata da un fatto di semantica. La norma risultava indeterminata data l'assenza di «criteri sicuri per separare e qualificare» la persuasione dalla suggestione; inoltre non è «possibile graduare e accertare in modo concreto fino a qual punto l'attività psichica del soggetto esternante idee e concetti possa impedire ad altri il libero esercizio della propria volontà». Aggiungere l'avverbio «grandemente» in riferimento alla limitazione della libertà di autodeterminazione, non sembra portare maggior chiarezza alla definizione del risultato. Quanto grandemente deve essere limitata la libertà di autodeterminazione per trasformarsi in reato? E come si valuta e si misura l'esclusione o la diminuzione dell'autodeterminazione? E chi lo fa?

Nel disegno di legge oggi in discussione è stato aggiunto un comma che prevede una maggiorazione della pena per quanti promuovono e praticano la manipolazione mentale/plagio come parte di un gruppo organizzato, come reato associativo: «Se il fatto è commesso nell'ambito di un gruppo che promuove o pratica attività finalizzate a creare o sfruttare la dipendenza psicologica o fisica delle persone che vi partecipano, ovvero se il colpevole ha agito al fine di commettere un reato, le pene di cui al primo comma sono aumentate da un terzo alla metà».

I nuovi proponenti raccolgono dunque l'eredità del primo tentativo di reintroduzione fatto nel 1981 con il Disegno di legge n. 569. Anche in quel caso si citava il pericolo di atti di terrorismo da parte di kamikaze, che si presume siano sempre indotti alla violenza da manipolatori mentali. Compaiono inoltre gli omicidi delle Bestie di Satana e altre notizie giornalistiche su incidenti non ben precisati. Non veniva però notato il paradosso di quei casi in cui l'intervento di magistratura e autorità di polizia ha portato a processi che, pur in assenza del reato di plagio, hanno decretato per i colpevoli condanne molto pesanti.


La manipolazione mentale nella vita quotidiana

I problemi che l'introduzione di reato di manipolazione mentale solleva in riferimento alla libertà religiosa paiono chiari: in teoria, tutte le organizzazioni religiose non gradite a lobby potenti potrebbero essere denunciate. Per tutto ciò, la questione non può non essere esaminata con pacatezza e prestando attenzione a tutti i precedenti, inclusi i casi stranieri. Chi stabilisce il criterio per comporre l'elenco delle «sette», formulando la definizione di queste? Un'ampia letteratura specialistica ha riconosciuto, da tempo, che non esistono nozioni condivise nella comunità accademica né per la «setta» né per la «manipolazione mentale». Inoltre Stati e giudici laici non possono evidentemente fare distinzioni fra i movimenti religiosi in base alle loro dottrine, o alla relazione con le chiese storiche o le religioni di maggioranza. La previsione che le legislazioni in materia religiosa possano minacciare la libertà delle minoranze religiose, alimenta molti timori. L'esperienza internazionale dimostra che il rischio per la libertà religiosa dei cittadini, cristiani o non cristiani, è tutt'altro che teorico. In alcuni Stati europei, interventi legislativi analoghi alla proposta di legge italiana contro la «manipolazione mentale» hanno avuto l'effetto indiretto di colpire non solo le cosiddette «sette», ma anche gruppi e nuovi movimenti religiosi appartenenti a chiese di maggioranza quale quella cattolica.

Lasciando al dibattito successivo la discussione del citato Disegno di legge n. 569, ci riferiamo qui solo alle domande che scaturiscono dalla vita quotidiana, a fronte dell'eventuale introduzione di tale reato. La prima domanda trova la sua migliore formulazione in un recente best-seller statunitense. Il sistema educativo cinese che il libro descrive potrebbe rappresentare forti elementi di manipolazione mentale. Il ruggito della mamma tigre ha scatenato negli Stati Uniti un infuocato dibattito sul rigore nella formazione dei figli [7]. Il libro racconta una storia fatta di disciplina, severità, rigore nel vivere la famiglia e i figli; al tempo stesso è una storia di amore e di successo. La mamma tigre è una docente alla Facoltà di legge di Yale che vive nel Connecticut con il marito, le figlie e due samoiedo. Il suo libro si legge come un romanzo, ma è, in realtà, la storia di una madre, cresciuta a sua volta secondo i principi educativi cinesi («la disciplina più disciplina del mondo»), che alleva le sue due figlie con gli stessi principi. E' un sistema nutrito di abnegazione, che insegna a puntare sempre all'obiettivo più alto, superare le difficoltà, con lo scopo di raggiungere la sicurezza personale e ottenere sempre il massimo risultato.

Ma quali sono nel dettaglio i principi educativi che, secondo alcuni, spiegano anche il fenomeno del primato dei bambini cinesi nel campo delle scienze, della matematica e della musica? La madre tigre li enumera fin dalla prima pagina: lo studio prima di tutto; quindi, niente gite scolastiche, niente visite dalle amiche o amici per giocare o passare la notte fuori casa, niente attività extrascolastiche, mai voti inferiori a dieci, mai arrivare secondi, dedicarsi solo a pianoforte e violino.

Come si intuisce, è un libro che, con la ricchezza delle sue provocazioni ha fatto scandalo in America e ha sconvolto le convenzioni politically correct della psicologia infantile. Ma ci sono anche altri fenomeni, ben studiati e di portata storica più ampia, che potremmo ricordare qui. Ad esempio il sistema educativo adottato nelle case comuni per bambini nei Kibbutzim socialisti di Israele. Secondo la teoria della manipolazione mentale, tutti i bambini che hanno vissuto le loro esperienze infantili in un Kibbutz, dovrebbero avere personalità instabili e disturbate. Eppure tutta la storia del popolo d'Israele dimostra il contrario [8].

Così, a inizio di questo volume, ci poniamo altre domande introduttive di senso comune; domande che si possono raccogliere negli ambienti quotidiani familiari, scolastici, educativi, di gruppi e movimenti religiosi. Reintroducendo la manipolazione mentale, andando oltre alla legge, tuttora in vigore, relativa alla circonvenzione di incapace, potrebbero essere indagate e condannate esperienze e situazioni come quelle che elencheremo di seguito come casi esemplari?

Potrebbe essere perseguita una famiglia che adottasse per l'educazione dei figli uno stile di vita in cui, data la priorità della scuola, dello studio, fossero proibiti ai bambini la TV, i passatempi con amici, le attività ricreative, la partecipazione ad attività esterne famiglia stessa?

Potrebbe essere indagata un'istituzione scolastica o singoli insegnanti che si ispirassero a modelli educativi particolarmente rigidi e finalizzati a massimizzare l'apprendimento degli studenti quale primo valore? Oppure, un'istituzione educativa, culturale, sportiva, religiosa, che attuasse processi di formazione rigorosamente basati su un sistema di valori scelto dall'istituzione stessa?

In questo caso, sarebbero sicuramente da condannare esperienze come quelle della Scuola di Barbiana, voluta e seguita da don Lorenzo Milani, vicino a Firenze o quella della scuola sita nella baracca 723 all'Acquedotto Felice in Roma (anni '60-'70), voluta e seguita da don Roberto Sardelli. Eppure si tratta d'iniziative che hanno prodotto promozione sociale, che hanno ottenuto unanimi riconoscimenti positivi dagli stessi ragazzi frequentanti, una volta diventati adulti, da istituzioni scientifiche e dalla vasta opinione pubblica. Intorno a queste esperienze si sono avuti riconoscimenti anche da parte dei mass-media; lettere, articoli, libri, video, interviste audio registrate ci ricordano ancora oggi l'eccezionale positività di queste e di altre simili esperienze. I protagonisti che ancora oggi vivono e si impegnano nel mondo sociale e culturale avrebbero molteplici ragioni per intervenire.

Potrebbe essere condannato un ordine religioso che prevedesse forme di iniziazione e di noviziato, durante le quali fossero vietate specifiche attività, normali per chiunque, come l'uscita dalla casa religiosa, i contatti con parenti e amici, l'uso dei mezzi di comunicazione, attività libere? Che dire del regime di clausura che istituzioni religiose cattoliche maschili e femminili tuttora prevedono? Dovrebbero essere considerate con sospetto le recenti forme di catecumenato della Chiesa cattolica, strutturate su precise fasi di avanzamento rituale, etico e comunitario all'interno di una comunità religiosa?

Antiche congregazioni e ordini religiosi, come quella dei Gesuiti, noti per una formazione molto curata e rigida, protratta nel tempo, dovrebbero essere biasimati e visti con sospetto? Eppure i Gesuiti hanno prodotto figure morali prestigiose, studiosi di fama internazionale. Si sono impegnati in situazioni di degrado sociale, sono stati in prima linea laddove altri ordini religiosi hanno preferito ritirarsi. Esistono inoltre nuove congregazioni e movimenti cattolici, come Movimento Catecumenale, Opus Dei, Comunione e Liberazione, Legionari di Cristo e altri che presentano una forte coesione interna; dovremmo pensare che questa sia resa possibile solo grazie alla imposizione prolungata di rigide regole di formazione? Infine, dovrebbero essere visti con sospetto tutti i nuovi movimenti religiosi, spirituali, monastici, filosofici che, per la loro costituzione di «minoranze innovative e diverse», devono prevedere percorsi di formazione e forme di appartenenza fortemente coinvolgenti e trasformativi?


La logica della discussione

Lo statuto logico di una raccolta di saggi di studiosi diversi, seppur nata da una domanda e da un progetto comuni, non è semplice da definire. La difficoltà non riguarda solo il curatore, ma anche, e soprattutto il lettore, che deve rintracciarvi coerenza di pensiero, unità tematica, convinzione comune. È quanto speriamo si possa trovare in questo volume che si interroga sulla questione della libertà religiosa. Jean Starobinski (1964) ha parlato dell'età dei Lumi come di un tempo che aveva visto «l'invenzione della libertà»; la democrazia globale contemporanea non può non essere anche l'invenzione della libertà religiosa.

Superato il prematuro cordoglio per la morte delle religioni e per la vittoria unica della tecnica, oggi siamo messi di fronte all'evidenza che la religione non è scomparsa,, ma che si sviluppa all'insegna non solo di fantasie e scelte individuali, ma anche dell'immaginazione collettiva. La fantasia porta spesso all'indifferenza, poiché la sua logica è autoreferenziale; ma l'immaginazione, soprattutto quando è collettiva, diventa impulso all'azione. «È l'immaginazione nelle sue forme collettive, che crea le idee di vicinato e di nazione, di economie morali e di regole ingiuste, di salari più elevati e di prospettive lavorative all'estero. L'immaginazione è oggi un palcoscenico per l'azione, non solo per la fuga» [9].

L'immaginazione svolge un ruolo sorprendente anche nell'ambito religioso, dove un nuovo individualismo contribuisce oggi a produrre quelle che Jacques Attali ha definito le «religioni dell'ego» o le «religioni LEGO» [10].

A questa realtà multiforme corrisponde la struttura variegata del presente volume. La disposizione dei contributi segue una logica tematica, che si dipana dalle questioni più generali fino all'analisi specifica di singoli problemi. Coerentemente con gli interessi iniziali di questa discussione collettiva, la prima parte («Epistemologia della libertà religiosa») attiene ai fondamenti della libertà, alle sue forme, ai suoi limiti, ai suoi rischi. Sono i temi discussi dai testi di Belardinelli, Ferrarotti, Leone, Luciano, Vannini, Volli. È la libertà in ambito politico, sociale, religioso, lavorativo, territoriale, nei rapporti amorosi. Troppa libertà richiama il caos. Ma troppo ordine evoca il silenzio e la dittatura. Anche in campo religioso, assenza di libertà è fondamentalismo e assenza della ricerca. Tutto questo evoca i concetti di libertà esterna e di libertà interna. La prima è la libertà di religione nella sua dimensione di scelta o di rinuncia; la seconda è la relazione che ogni fedele ha con la sua religione e con gli obblighi che essa gli propone.

La seconda parte del volume («Diritto, Costituzione e libertà religiosa») con i contributi di Amicarelli, D'Agostini, Heritier, Margiotta Broglio, Mellini, Monetti, Nocita, Pace, discute direttamente la questione inerente la pretesa di assoggettare a repressione penale le attività definite «manipolazione mentale». Si intravede nei contributi di tutti gli studiosi l'invito a non produrre anche in campo religioso «fattispecie penali apparenti». Chi ha la scienza e il diritto di formulare la definizione di «setta» e ancor più di indicare il punto in cui i rapporti interpersonali educativi, formativi, motivazionali assumono la natura di «manipolazione mentale»? Le «fattispecie penali apparenti» si presentano quali nuove mine vaganti anche per la libertà religiosa.

Nella terza parte del volume («Libertà religiosa: temi e problemi») i contributi di Di Marzio, Giorda, Introvigne, Manconi, Palombo, Perucchietti e Turri trattano i temi specifici del lavaggio del cervello, del controllo sociale e penale delle minoranze religiose e, in una dimensione positiva, dell'educazione alla libertà, alla tolleranza e al rispetto delle differenze. Il mito del lavaggio del cervello, che presenta ormai una storia bicentenaria, è abbandonato oggi da tutti gli studiosi dei religious studies, oltre che da quelli delle discipline giuridiche, socio-psicologiche e teologiche. Eppure, la falsa problematica del lavaggio del cervello sembra riproporsi insieme a quella della manipolazione mentale. Il riaffiorare della nozione si basa sull'eventualità di reati dovuti al maltrattamento e abuso dello stato di debolezza di persone incapaci di intendere e volere nelle organizzazioni religiose. Anche in questi casi, però, l'applicazione delle norme esistenti del diritto penale comune è sufficiente a tutelare i diritti di tutti. L'equilibrio tra tolleranza per ogni tipo di minoranza e applicazione del diritto è la sfida maggiore per le attuali società pluraliste.

La bibliografia finale, curata da Viarengo, indica, tra la vasta letteratura, le opere degli autori del volume e i testi principali in lingua italiana relativi alla questione della libertà religiosa nelle società contemporanee.

Note:

1. Cf. A. CCAPITINI, La religione aperta, Laterza, Roma-Bari 2011.

2. Cf. R. VIVARELLI, I caratteri dell'età contemporanea, Il Mulino, Bologna 2005.

3. G. DALLA TORRE, Il fattore religioso nella costituzione, Giappichelli, Torino 1988, p. 135.

4. Sarà opportuno in futuro promuovere uno studio specifico sulle componenti filologiche, storiche e sociali del fenomeno indicato con il nome «setta». Potrà essere utile a individuare anche quanto esso ha rappresentato nella politica, nel costume e nelle discussioni religiose in Italia; a iniziare dal periodo di inizio Ottocento in cui «setta» era espressione per indicare genericamente tutti i «nemici del Trono e dell'Altare» («setta giacobina», «settaccia liberale», «setta de li frammassoni»), fino all'uso successivo per indicare, senz'altra indicazione, la Massoneria. E nel Novecento che la qualifica di «setta» viene applicata a tutte le confessioni protestanti, anche se già nel Medioevo, e dopo la Riforma, venivano indicati in tal modo tutti i gruppi ereticali. Il rapporto tra repressione della cosiddetta «manipolazione mentale» e le «sette» ha quindi un nesso che non è meramente strumentale e occasionale.

5. Cf. H.S. BECKER, Outsiders. Saggi di sociologia della devianza, Edizioni Gruppo Abele, Torino 1987; J.R. GUSFIELD, Symbolic Crusade Status Politics and the American Temperance Movement, University of Illinois Press, Urbana 1963.

6. Cf. G. FERLUGA, Il processo Braibanti, Silvio Zamorani Editore, Torino 2003.

7. Cf. A. CHUA, Il ruggito della mamma tigre, Sperling & Kupfer, Milano 2011.

8. Cf. B. BETTELHEIM, Il cuore vigile. Autonomia individuale e società di massa, Adelphi, Milano 1998.

9. A. APPADURAI, Modernità in polvere, Raffaello Cortina, Milano 2012, p. 13.

10. J. ATTALI, Le sens des choses, Éditions Robert Laffont, Paris 2009, p. 41.

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