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Biljana Srbljanovic: da Belgrado vi scrivo 

Di Andrea Tarquini.

Tratto da La Repubblica, 18 Giugno 1999 - supplemento Il Venerdì - pag. 17.

Fotografie di Enrica Scalfari/agf. Trascrizione a cura di Martini. 

 
 
Parole contro - per le sue coraggiose opere teatrali e per il suo "Diario di Guerra" che l'ha resa celebre in Italia è il simbolo della sfida a Milosevic. Una scrittrice temuta dal regime che ha vietato tutte le sue commedie.
 
 
COLONIA - I grandi occhi bruni scrutano vivaci, i lineamenti le danno un'eleganza snella ed esile, quasi da giovane aristocratica dei romanzi. Biljana Srbljanovic a tratti ricorda un po' Demi Moore. Bella e brava, in un altro paese forse avrebbe avuto davanti l'autostrada d'una carriera da star senza sfidare polizia e censura d'un fascismo rosso corrotto e spietato, senza le minacce di morte delle sue squadracce. Parla sempre sorridendo, Biljana che veste in nero con semplice buon gusto. Fa teatro con successo, ama il rock, il cinema americano, Eco e Fellini. A Belgrado, dove il Muro non è ancora caduto, questa ragazza che adora far tardi in discoteca o con gli amici e sa scherzare disinvolta sugli spinelli e sul sesso fa tremare la dittatura, ed è diventata una figura-simbolo dei giovani che - anche ora, a guerra conclusa - temono il richiamo alle armi come una condanna a morte, e sognano vita normale e libertà contro l’orrore imposto da Milosevic.

"Mi chiedi se rischio? Ma no, non più di tanto", minimizza sorridendo quando le domandiamo quanto sia grande la minaccia della repressione. "Al massimo possono pestarmi, che vuoi che sia? Lascia pure che scrivano le loro lettere minatorie", ride gettando indietro il capo.

Al suo fianco il fidanzato Naned Prokic, direttore di teatro in prima fila anche lui nel dissenso, si sforza di sorridere a sua volta ma l’apprensione gli segna il volto, e la sua mano forte da sportivo corre a stringere quella lunga e sottile dell’amata per cercar conforto dall’incubo della violenza. È un flash terribile, mentre ascolto Biljana e Nenad a cena in un elegante locale "in" nell’allegra, prospera Colonia: ecco il quotidiano della Serbia irrompere improvviso. L’amore convive col vento di morte della dittatura, laggiù nella Belgrado dove Biljana è nata e cresciuta in una buona famiglia, laggiù dove nel clima un tempo vivace dei locali della città vecchia lei scoprì da adolescente e poi da universitaria le prime emozioni e le prime notti bianche, la voglia d’Europa e d’Occidente, le riunioni di protesta e i primi amori. La guerra ora conclusa, ma prima ancora la dittatura,, hanno segnato la figlia prodigio del colto ceto medio belgradese. "Ho avuto un’infanzia felice, sono cresciuta in una Belgrado più avanzata, aperta e libera del resto dell’est, lontana da ogni idea di odio etnico. Ricordo ancora la vacanza di studi a Gemona, in Friuli: mi regalarono un corso estivo d’italiano…Mai avrei temuto questa involuzione da discesa agli inferi. Papà e mamma, cresciuti nel comunismo soft e multietnico titoista, mi hanno educato alla tolleranza e all’apertura. E a non mentire. Sono due genitori stupendi, di cui sono orgogliosa: mamma è eccezionale, sai ancora oggi sa discutere di tutto, e quando ci parliamo al telefono, non perde un’occasione per fare insieme due risate prendendo in giro i gerarchi del regime. Pensa, chiama Vojslav Seselj, il capo degli ultrà nazionalisti dal volto grottesco, "la rana incinta"." Abitudini radicate alle confidenze tra madre e figlia sul privato e sulla politica, come nelle migliori famiglie da noi. Ma adesso in famiglia è entrata la necessità della menzogna, che per Biljana bambina e adolescente era vietata: "Mamma e io abbiamo deciso di nascondere a papà i giornali ufficiali. Se leggesse gli attacchi contro di me si spaventerebbe, ed è meglio di no, per la sua serenità e la sua salute."

"Ma non pensate a me quando parliamo di rischi", dice Biljana, "pensiamo ai civili che ho visto morire sotto le bombe, gente cui venivano amputate le gambe per poterli estrarre dalle macerie, pensiamo a quei poveri ragazzi di leva mandati al fronte quasi senza armi né uniformi e morti sotto le tempeste di fuoco dei B-52. Io non avrei immaginato che saremmo finiti così in basso, quando per le prime volte andammo in piazza per la democrazia e contro il regime. Non immaginavo la guerra all'epoca dei nostri primi sit-in, quando andavamo spensierati, pieni di voglia di sfida, a prenderci le manganellate della polizia di Milosevic".

E adesso? Adesso il teatro e il Diario su "Repubblica" sono le sue armi contro il dittatore: lei che ammira loneseo, Grass e Umberto Eco, ha dedicato ai "traditori" della Storia ufficiale, i giovani fuggiti all'estero per scampare alla guerra, quella Trilogia di Belgrado che fu anche la sua tesi di laurea all'illustre facoltà d'arte drammatica di Belgrado, e oggi percorre i palcoscenici di Germania di trionfo in trionfo.

Scelte casuali, improvvisate. "Il teatro deve dar voce alla gente, ricordare che siamo ancora capaci di pensare", dice Biljana. "Ma l'ho scelto trascinata dagli eventi, non per vocazione: ho preferito studi letterari, poi mi sono accorta che scrivevo opere teatrali molto meglio che non novelle". E poi Nenad è arrivato nel cuore della sua vita, l'ha incoraggiata, ha scommesso sul suo talento mentre insieme scoprivano la voglia comune di farla finita con la dittatura, "ma senza predicare violenza, sangue e bombe", e l'amore che li univa. E nella Jugoslavia dove il comunismo soft titoista cedeva il passo al fascismo rosso di Milosevic, la passione letteraia-teatrale di Biljana è diventata impegno politico.

"Le ultime rappresentazioni a Belgrado si sono trasformate in happening dibattiti", racconta Biljana. "Poi all'improvviso le mie opere sono scomparse dal repertorio dei teatri, senza nessuna spiegazione". Forse dall'alto è venuto un consiglio. "I giornali di regime mi chiamano "la puttana degli italiani", e al mio professore alla facoltà di arte draimatica, Filip David, va peggio: è il bersaglio di una campagna antisemita". E come si fa a sopravvivere in questa Belgrado? Con ironia, risponde lei mentre passeggiamo nello splendido centro pedonale di Colonia, mentre con curiosità tutta femminile quei grandi occhi ammirano la moda italiana nelle vetrine. Si vive di ristrettezze in un'economia da mercato nero, e cercando humour per superare le paranoie, in una doccia scozzese tra paura e disprezzo del pericolo: "Sai", confida Biljana, "da tempo ormai abbiamo elaborato un codice, per parlare al telefono nella certezza o almeno nell'illusione che il terzo individuo, il poliziotto che ci ascolta sistematicamente, non capisca. Ma la guerra ha allentato le paure. Dopo qualche minuto di chiacchierata al telefono non ce la facciamo più a dire "Lui", o a chiamarlo con le iniziali, "S.M." per Slobodan Milosevic, scoppiamo a ridere, e tanto peggio, passiamo a parlare in chiaro sperando che la mattina dopo non ci svegli la notizia di un altro amico o figlio di amici chiamato alle armi e non tornato dal Kosovo.

"Adesso il dopoguerra sarà un processo lungo e difficile", dice Biljana ammirando i ponti, le ampie strade e gli spazi verdi di Colonia, e scorgendo nella vetrina d'una libreria una foto del '45, con il Duomo gotico rimasto solo, che si erge ancora intatto tra le macerie.

"Sopravviviamo di piccole cose. Pensa, all'inizio della guerra furono improvvisameilte vietate tutte le rappresentazioni di opere teatrali di paesi Nato. Alcuni teatri, nella più nera disperazione, si sono trovati all'improvviso nell'impossibilità di rappresentare Shakespeare o Goethe... adesso il divieto è stato revocato, e la tv ha preso a mandare in onda film americani, rock americano e inglese, tutti i simboli e i valori di quel "nemico" di cui abbiamo detestato le bombe, ma di cui amiamo i valori: la libertà, la cultura giovanile... Più ancora della ricostruzione materiale, quella morale sarà difficile", teme Biljana. "Troppe sono le ferite lasciate aperte dai nazionalismi, troppi i guasti prodotti dalla cleptocrazia. Pensa al partito guidato da Mirjana Markovic, la moglie di Milosevic: ha tre deputati e sei ministri!... è una coppia legata da un'attrazione magnetica, lei sembra persino peggiore di lui". È un triste film già visto: ecco tornare dai ricordi del passato-presente le sinistre dittature familiari di Erich e Margot Honecker o di Nicolae ed Elena Ceausescu. "E molti altri politici come Vuk Draskovic e sua moglie, non sono meno corrotti e opportunisti."

Eppure lei non ce la fa a predicare la violenza, rifiuta la sola idea di invitare a prendere le armi: ha l’istinto pacifista nel sangue, Biljana che al ristorante legge il menu, chiede che cosa significhi la parola "hirsch" e quando la traduciamo "cervo" simula. Scherzando solo a metà, uno scatto d’orrore: "Oh sio, il papà di Bambi non posso mangiarlo!"

Beati i popoli che non hanno bisogno di eroi ebbe a scrivere Brecht. "Ci vorrà altra generazione" dice Biljana "per riuscire a non avere più bisogno di leader forti, per irmparare a vivere governati da partiti democratici normali capaci di alternarsi al potere o all’opposizione. E quanto a noi intellettuali, spero che impareremo a restare sempre oppositori critici, spero che non dimenticheremo mai che nessun governo si merita una vita senza critiche e non diremo mai "ora i nostri sono al potere". Forse solo chi nasce adesso crescerà libero dal fardello dei nazionalismi." E quando la cena volge alla fine Biljana, continuando a discorrere mentre riaggiusta di continuo la bretellina dell’elegante blusa-body di seta che si ostina a scivolare giù dalla spalla destra, raffronta sconsolata la sua Serbia di oggi con l'autunno di altre dittature: "Penso spesso ad alcuni amici spagnoli che conservarono per anni una bottiglia di champagne e alla morte di Franco infine la stapparono. Ecco, senza augurarsi la morte di nessuno noi davvero non siamo allo champagne."

Ma lei non ha mai avuto la tentazione dell’esilio? "Sì, ci ho pensato tante volte, e Thomas Mann per noi è un punto di riferimento. Ma non ce la faccio." Quella terra distrutta dalla dittatura e dalle sue guerre resta pur sempre il suo Paese.

 
 
 
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