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La Serbia che urla e quella che pensa

Il diario di guerra della drammaturga serba più dura contro il regime, ma che non ha voluto lasciare la sua città. Di Biljana Srbljanovic.

Ogni giorno sul quotidiano La Repubblica, dal 28 Aprile 1999. Ripreso da Allarme Scientology, pagine a cura di Martini.

© Der Spiegel - La Repubblica.

VIENNA (31 MAGGIO) - Come riconoscere i serbi all'estero? Ci sono due modi. Se vedete un gruppo di persone che parlano tanto a bassa voce che neanche possono sentirsi, e che sono costretti a leggere le parole gli uni sulle labbra degli altri, allora c'è grande probabilità che siano serbi. La gente messa in condizione di dover nascondere la propria origine, la propria "identità nazionale", la gente che si vergogna per quello che il suo paese sta facendo in suo nome e per quella specie di generalizzazione che spinge la Nato a colpire i suoi obiettivi: sono queste le caratteristiche dei "nostri" all'estero.

Allo stesso modo, se sentite un gruppo urlare canzoni nazionaliste ed espressioni di sostegno al regime serbo che risuonano nelle strade, se per caso vedete la gente in corteo che urla slogan in onore della gloria serba (con errori di grammatica obbligatori), non abbiate dubbi: anche quelli sono serbi.

Il primo gruppo si distingue perché ogni volta che sente un rumore più forte ha un sussulto, sobbalza ad ogni decollo degli aerei civili, e a ogni "scoppio" di tubo di scappamento si copre la testa con le mani. Sono serbi appena arrivati qui all'estero, alcuni solo di passaggio come me, e si portano dietro le conseguenze dei giorni passati sotto le bombe, e dalle quali non si possono liberare tanto facilmente.

Gli altri, che si sono invece sistemati qui da tanto tempo, hanno leggermente dimenticato la loro lingua materna, contaminandola con parole straniere. Credono di "serbizzare" l'Occidente, senza accorgersi che si stanno invece allontanando dalle proprie origini.

A dividere queste due Serbie all'estero è la stessa cosa che le divideva a casa: una terribile spaccatura dei cittadini di uno stesso paese in due gruppi irriconciliabili. I primi, quelli "tranquilli" sono stufi della guerra, delle insegne nazionaliste, della povertà economica e umana. Gli altri, anche se sembrano ancora affamati di nuove battaglie (che bramano ardentemente di perdere come la famosa antica battaglia del Kosovo), non hanno un vero interesse per la morte e la miseria, perché hanno già deciso di abitare qui. Il normale istinto umano di fuggire il pericolo, ha portato quelli che urlano qui, nel mondo occidentale. E qui nella comodità dei loro appartamenti, della previdenza sociale e dei conti in banca, parlano nel nome di quelli come noi che soffrono le vere conseguenze della guerra. E urlano: "Chi può dire/ Chi può mentire/ Che la Serbia è piccola?/ Non è piccola/ Non è piccola/ Perché ha combattuto per tre volte...!". Questa canzone che cantano, non è solo brutta ma è anche falsa: la Serbia, purtroppo, è piccola, più piccola che mai, e ha guerreggiato più di tre volte. Già quattro, solo nell'ultimo decennio.

Nonostante, possa sembrare che queste due categorie di persone siano diverse, irriconciliabili, quasi in guerra tra loro, c'è tra loro un forte legame. È quella stessa sensazione di essere derubati della vita, usurpati della gioventù e di aver perduto per sempre il tempo in cui potevamo anche dedicarci a costruire il nostro paese al quale siamo tutti, nonostante le differenze, molto legati. Purtroppo oggi, mentre guardo le colombe che beccano gli escrementi dei cavalli lasciati indietro dalle carrozze che portano in giro i turisti americani, in questa città che risuona ovunque della sua grande era imperiale, penso che i "tranquilli" rimarranno per sempre tranquilli, rispetto a quelli che urlano. E che quelli che urlano, nonostante possano anche cambiare la canzone che cantano, continueranno ad urlare.

 
 
 
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