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Quei poveri spettri alle porte della città

Il diario di guerra della drammaturga serba più dura contro il regime, ma che non ha voluto lasciare la sua città. Di Biljana Srbljanovic.

Ogni giorno sul quotidiano La Repubblica, dal 28 Aprile 1999. Ripreso da Allarme Scientology, pagine a cura di Martini.

© Der Spiegel - La Repubblica.

BELGRADO (15 GIUGNO) - Ieri sera alle porte di Belgrado è arrivato il popolo che non esiste. Hanno intasato le strade con una lunga fila di auto e trattori. Su quelle auto, su quei carretti, quella gente aveva caricato tutto quanto possiede. Adesso finalmente sono al termine del loro lungo viaggio. Questa gente senza volto e senza nome è rimasta bloccata all'ingresso della capitale, più avanti non possono andare: lì il loro viaggio è finito. La colonna dei profughi, serbi in fuga dalle cittadine kosovare che passano sotto il controllo del'Uck, ha iniziato a ritirarsi con l'esercito. Quel popolo lascia dietro di sé tutto, tutto quel che ha guadagnato durante una vita intera. Ufficialmente queste migliaia di persone non esistono, sono i fantasmi, le fate morgane. Di loro non si parla, di fronte a loro teniamo gli occhi chiusi.

I funzionari, dalle loro Mercedes con aria condizionata, ridono di questi fantasmi. Ci confermano che non esistono, ma di notte, con calma, provano a convincere la colonna dei profughi a ritornare da dove sono venuti. Gli dicono che per loro non c'è alcun pericolo, che non devono avere paura e che adesso, liberamente e di propria spontanea volontà, subito, "su due piedi", devono tornare indietro. D'altra parte, questa gente afferma che proprio il nostro "esercito nazionale" gli ha ordinato di muoversi! Purtroppo, a Belgrado non li vogliono, perché rovinano la celebrazione di una grande vittoria. Questa povera gente dà fastidio a tutti, specie al regime di malfattori che adesso vuole convincere tutti che non ha fatto niente, come dice, in nome del popolo serbo del Kosovo.

Questa gente disturba anche gli scettici "patrioti delle retrovie" che hanno trascorso i giorni della guerra provocando i clienti dei caffè assorti nei loro pensieri sopra i loro cappuccini, istigando l'odio nazionalista, chiedendo la guerra totale, fino all'ultimo albanese vivo. E annaffiando queste parole con la coca-cola questi turbo-serbi adesso provano la nausea di quei profughi.

Dicono che quella gente contaminerà Belgrado, che costoro appartengono alla terra e non all'asfalto, che non hanno niente da fare con la nostra città.

La cosa più triste è che questa è la verità. La gente che ha lasciato la sua terra, partita per entrare a forza in città, non porta niente di buono né per se né per la città. Ma non c'è niente altro da fare, questa gente esiste, nonostante quel che le notizie ufficiali provano a nascondere, sono qui, di fronte alle barriere, solo dieci chilometri lontano dal centro città, sapendo benissimo chi li ha cacciati dalle proprie case, chi ha iniziato per primo a picchiare e adesso se ne frega delle conseguenze. Questa gente è un testimone indesiderato, hanno visto con i propri occhi le "azioni eroiche" della nostra polizia. E chi vuole adesso vederli camminare in libertà, raccontare i loro traumi psichici, i crimini a cui hanno assistito, a chi servono i testimoni del nostro "combattimento glorioso"? Ecco quali sono le conseguenze della politica patriottica del più grande patriota di tutti i patrioti serbi e del più grande figlio della nazione Serba; ecco come si comporta questa città dalla quale sono scappati gli abitanti e dove adesso vuole entrare altra povera gente. Purtroppo, questo è il modo in cui si è conservata questa città nell'ultimo decennio, i migliori se ne vanno, perché se ne devono andare, e la città assomiglia ogni giorno di più a un villaggio. E pure se assomiglia alla borgata più affondata nel fango, questa gente deve proprio entrare, perché non ha altra scelta.

Gli spettri si trovano ora di fronte a Belgrado, e le guardie tutelano la "città dorata" per non lasciarsi sporcare dalla disgrazia umana. Oggi mi vergogno di essere una belgradese, mi vergogno della mia città, della città che amo di più al mondo.

(traduzione di Aleksandra Jovicevic)

 
 
 
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